Le voci dell'acqua di Tiziano Sclavi e Werther Dell'Edera
"Tutta quest'acqua dovrà pur finire da qualche parte"
Le voci dell'acqua è una storia cupa, drammatica, con puntelli di amara ironia, che rappresenta il ritorno di Tiziano Sclavi e del suo pessimismo ed esistenzialismo. L'ideatore di Dylan Dog in questa sua prima incursione nella forma "graphic novel" fa coppia con Werther Dell'Edera, talento del tavolo da disegno che non smette di stupire per versatilità ed estro visionario.
Come l'acqua
In questa storia sclaviana i terrori della mente si concretizzano nella comparsa di un "sintomo" che contribuisce a smuovere la quotidianità del protagonista, Stavros. Una percezione, un sentire o, meglio, un ascoltare delle voci, ma soltanto quando dell'acqua scorre. Il fatto è che, nella città senza nome in cui è ambientata la storia, l'acqua scorre di continuo: precipita senza sosta dal cielo, sgorga dagli occhi, gocciola dai rubinetti, quasi che Sclavi ne abbia voluto fare la cifra stilistica di questa sua nuova sceneggiatura: gli unici momenti in cui non piove sono rappresentati nel Prologo, nell'Epilogo e nel terzo capitoletto, Un sogno, forse l'unica sequenza di pace e serenità.
Nomen omen
Una piccola parentesi sul nomen scelto da Sclavi per il suo protagonista, mai come in questo caso omen dello stesso. Stavros, dal greco σταυρος, significa "croce" e viene usato in riferimento alla croce usata per la crocifissione di Gesù. L'accostamento del nome del protagonista con il mezzo mediante cui è stato inflitto dall'uomo il supplizio al figlio di Dio non è casuale. Questa scelta sembra quasi incarnare una vendetta del creatore sulla sua creatura: tu, uomo, hai inflitto tanto dolore al figlio che io avevo mandato sulla terra per redimerti e salvarti e ora che lo hai fatto soffrire e ucciso sconterai diversamente, ma forse più a lungo fin dalla tua esistenza terrena, le stesse pene. Potremmo, quindi, chiamare il nostro uomo anche Crocifisso e forse capiremmo meglio che il suo universo interiore e il mondo che lo circonda sono luoghi di solitudine (la stessa di Cristo sul Golgota), sofferenza e, infine, morte.
Sulla città e sull'alienazione
Altra protagonista di questa storia sclaviana dai connotati dylanianti è la grigia città senza nome, con il suo brulicante verminaio di esseri umani, tutti anonimi, senza volto, incapaci di comunicare tra loro e con il protagonista. Tutti, Starvos compreso, appaiono alienati, non adatti a vivere nel mondo così com'è (e forse non è un male ma una testimonianza del poco di umanità residua), tutti sono sull'orlo dell'abisso, pronti a uccidere e a uccidersi, totalmente e consapevolmente non in grado di provare empatia, solidarietà, amore...
Gli angoli di questa zona grigia di mondo perennemente battuta dalla pioggia equivalgono ai tanti angoli di un inferno disperato e angosciante, quello della mente del protagonista, il quale incarna tutto ciò che la letteratura novecentesca ci ha tramandato: la solitudine dell'esistenza che non riesce (e non potrebbe riuscire) a comunicare all'altro da sé le proprie ansie ma che sembra essere sempre sul punto di giungere a una rivelazione che, puntualmente, non arriva mai. Non ha nessuno da amare e con cui parlare, non gli resta che il silenzio a urlargli contro che è malato e che le voci o, meglio, i lamenti che ascolta, quando c'è acqua che scorre, sono gli ultimi scampoli della sua sanità mentale e fisica che, sgorgando via senza sosta, lo abbandonano al suo destino. Solitudine come protezione dalla vita stessa che conduce alla totale mancanza di comunicazione con gli altri e, soprattutto, con se stessi.
Un "nero universo di dolore"
Sclavi riprende il tema dell'inconsistente impalpabilità dell'esistenza, di quanto tutto possa dimostrarsi effimero e relativizzabile e, soprattutto, del fardello pressoché insostenibile della coscienza della propria mortalità. Intorno al suo protagonista descrive un "mondo d'angoscia", un "nero universo di dolore", emblema di quel nichilismo che ha caratterizzato le ultime fasi della sua scrittura, una penna pervasa ancor più del solito da un pessimismo assoluto e senza possibilità alcuna di redenzione.
L'aspetto disumanizzante e alienante del lavoro di un impiegato in un ufficio di grandezza infinita e con scrivanie tutte uguali a perdita d'occhio, l'amore che non possiede alcun potere salvifico, le ipocrisie dei rapporti umani, le ossessioni, la schizofrenia. E gli alieni, che sono gli altri visti da noi e che siamo noi visti dagli altri. Quel "non sa perché lo fa" ripetuto, a sottolineare l'assoluta mancanza di un senso e di uno scopo. E quel finale, deflagrante e inevitabile.
Impalpabilità
L'evoluzione artistica di Werther Dell'Edera merita una parentesi a parte. Molto autoriale, decisamente intenso, a tratti impalpabile e persino fluido, rappresenta la storia partorita dalla mente di Sclavi in maniera impeccabile. Il suo gusto per le inquadrature è unico, mentre suo il tratteggio rende tutto incerto, la realtà diventa relativa e rende l'idea che la luce fatichi non poco a filtrare nelle vite dei personaggi.
Forse la storia avrebbe giovato di balloon meno tondi e "perfetti", di contenitori più "sofferenti", scritti a mano e pienamente personali. Ma resta una sottigliezza, che non intacca un lavoro particolarmente riuscito.
"Da qualche parte"
Una lettura breve, rapida, tutt'altro che superficiale e che, anzi, ti lascia dentro quella sensazione di inquietudine e irrequietezza esistenziale che sembra non abbandonarti per un po'.
"Tutta quest'acqua dovrà pur finire da qualche parte". Del resto, a volte anche la felicità scorre via come l'acqua, e senza lasciarci nulla dentro.
Le voci dell'acqua
Feltrinelli Comics, 2019
Testi: Tiziano Sclavi
Disegni: Werther Dell'Edera
Le voci dell'acqua è una storia cupa, drammatica, con puntelli di amara ironia, che rappresenta il ritorno di Tiziano Sclavi e del suo pessimismo ed esistenzialismo. L'ideatore di Dylan Dog in questa sua prima incursione nella forma "graphic novel" fa coppia con Werther Dell'Edera, talento del tavolo da disegno che non smette di stupire per versatilità ed estro visionario.
Come l'acqua
In questa storia sclaviana i terrori della mente si concretizzano nella comparsa di un "sintomo" che contribuisce a smuovere la quotidianità del protagonista, Stavros. Una percezione, un sentire o, meglio, un ascoltare delle voci, ma soltanto quando dell'acqua scorre. Il fatto è che, nella città senza nome in cui è ambientata la storia, l'acqua scorre di continuo: precipita senza sosta dal cielo, sgorga dagli occhi, gocciola dai rubinetti, quasi che Sclavi ne abbia voluto fare la cifra stilistica di questa sua nuova sceneggiatura: gli unici momenti in cui non piove sono rappresentati nel Prologo, nell'Epilogo e nel terzo capitoletto, Un sogno, forse l'unica sequenza di pace e serenità.
Nomen omen
Una piccola parentesi sul nomen scelto da Sclavi per il suo protagonista, mai come in questo caso omen dello stesso. Stavros, dal greco σταυρος, significa "croce" e viene usato in riferimento alla croce usata per la crocifissione di Gesù. L'accostamento del nome del protagonista con il mezzo mediante cui è stato inflitto dall'uomo il supplizio al figlio di Dio non è casuale. Questa scelta sembra quasi incarnare una vendetta del creatore sulla sua creatura: tu, uomo, hai inflitto tanto dolore al figlio che io avevo mandato sulla terra per redimerti e salvarti e ora che lo hai fatto soffrire e ucciso sconterai diversamente, ma forse più a lungo fin dalla tua esistenza terrena, le stesse pene. Potremmo, quindi, chiamare il nostro uomo anche Crocifisso e forse capiremmo meglio che il suo universo interiore e il mondo che lo circonda sono luoghi di solitudine (la stessa di Cristo sul Golgota), sofferenza e, infine, morte.
Sulla città e sull'alienazione
Altra protagonista di questa storia sclaviana dai connotati dylanianti è la grigia città senza nome, con il suo brulicante verminaio di esseri umani, tutti anonimi, senza volto, incapaci di comunicare tra loro e con il protagonista. Tutti, Starvos compreso, appaiono alienati, non adatti a vivere nel mondo così com'è (e forse non è un male ma una testimonianza del poco di umanità residua), tutti sono sull'orlo dell'abisso, pronti a uccidere e a uccidersi, totalmente e consapevolmente non in grado di provare empatia, solidarietà, amore...
Gli angoli di questa zona grigia di mondo perennemente battuta dalla pioggia equivalgono ai tanti angoli di un inferno disperato e angosciante, quello della mente del protagonista, il quale incarna tutto ciò che la letteratura novecentesca ci ha tramandato: la solitudine dell'esistenza che non riesce (e non potrebbe riuscire) a comunicare all'altro da sé le proprie ansie ma che sembra essere sempre sul punto di giungere a una rivelazione che, puntualmente, non arriva mai. Non ha nessuno da amare e con cui parlare, non gli resta che il silenzio a urlargli contro che è malato e che le voci o, meglio, i lamenti che ascolta, quando c'è acqua che scorre, sono gli ultimi scampoli della sua sanità mentale e fisica che, sgorgando via senza sosta, lo abbandonano al suo destino. Solitudine come protezione dalla vita stessa che conduce alla totale mancanza di comunicazione con gli altri e, soprattutto, con se stessi.
Un "nero universo di dolore"
Sclavi riprende il tema dell'inconsistente impalpabilità dell'esistenza, di quanto tutto possa dimostrarsi effimero e relativizzabile e, soprattutto, del fardello pressoché insostenibile della coscienza della propria mortalità. Intorno al suo protagonista descrive un "mondo d'angoscia", un "nero universo di dolore", emblema di quel nichilismo che ha caratterizzato le ultime fasi della sua scrittura, una penna pervasa ancor più del solito da un pessimismo assoluto e senza possibilità alcuna di redenzione.
L'aspetto disumanizzante e alienante del lavoro di un impiegato in un ufficio di grandezza infinita e con scrivanie tutte uguali a perdita d'occhio, l'amore che non possiede alcun potere salvifico, le ipocrisie dei rapporti umani, le ossessioni, la schizofrenia. E gli alieni, che sono gli altri visti da noi e che siamo noi visti dagli altri. Quel "non sa perché lo fa" ripetuto, a sottolineare l'assoluta mancanza di un senso e di uno scopo. E quel finale, deflagrante e inevitabile.
Impalpabilità
L'evoluzione artistica di Werther Dell'Edera merita una parentesi a parte. Molto autoriale, decisamente intenso, a tratti impalpabile e persino fluido, rappresenta la storia partorita dalla mente di Sclavi in maniera impeccabile. Il suo gusto per le inquadrature è unico, mentre suo il tratteggio rende tutto incerto, la realtà diventa relativa e rende l'idea che la luce fatichi non poco a filtrare nelle vite dei personaggi.
Forse la storia avrebbe giovato di balloon meno tondi e "perfetti", di contenitori più "sofferenti", scritti a mano e pienamente personali. Ma resta una sottigliezza, che non intacca un lavoro particolarmente riuscito.
"Da qualche parte"
Una lettura breve, rapida, tutt'altro che superficiale e che, anzi, ti lascia dentro quella sensazione di inquietudine e irrequietezza esistenziale che sembra non abbandonarti per un po'.
"Tutta quest'acqua dovrà pur finire da qualche parte". Del resto, a volte anche la felicità scorre via come l'acqua, e senza lasciarci nulla dentro.
Rolando Veloci & il Sommo
Le voci dell'acqua
Feltrinelli Comics, 2019
Testi: Tiziano Sclavi
Disegni: Werther Dell'Edera