Sangue e ghiaccio
Lo splendido numero de Le Storie di Tito Faraci e Pasquale Frisenda
“Sangue e ghiaccio”
SERIE: Le storie
NUMERO: 47
DATA: agosto 2016
SERGIO BONELLI EDITORE
SOGGETTO E SCENEGGIATURA: Tito Faraci
DISEGNI E CHINE: Pasquale Frisenda
COPERTINA: Aldo Di Gennaro
Se doveste avere l'occasione di leggere un solo albo autoconclusivo nel mese appena passato, non abbiate timore e scegliete Sangue e ghiaccio. Diciamo questo non solo per il fattore climatico citato nel titolo, quel ghiaccio che vi entra nelle ossa e potrebbe ristorarvi da un'estate rovente, ma anche e soprattutto per l'ottima fattura delle 110 pagine scaturite dalla mente di Tito Faraci e dai pennelli di Pasquale Frisenda. Gli acquerelli di Frisenda vi scaveranno dentro fino a lacerarvi, pronti a inondarvi di una bellezza inaudita.
[Nell'interpretazione dell'albo potremmo produrre qualche piccolo e insensibile spoiler, augurandoci di non far danni!]
Già dagli elementi appena descritti si configura dinanzi al lettore un episodio dall'impronta molto cinematografica, che si affranca agilmente da riferimenti univoci ma si avvale di diverse fascinazioni, riuscendo al contempo a risultare originale e fantasioso.
Molto interessante sarebbe ricostruire la simbologia del numero di soldati protagonisti della storia (sette come i samurai di Akira Kurosawa o come le anime dannate di Tiziano Sclavi e Corrado Roi), oppure confrontare l'ambientazione innevata con quella dell'ultimo lungometraggio di Quentin Tarantino (quel The Hateful Eight che ha un solo personaggio in surplus rispetto agli altri riferimenti). Ma queste suggestioni si riducono di fatto solo a mere impressioni soggettive... L'ambientazione dell'epoca napoleonica sicuramente contribuisce al fascino e all'originalità dell'episodio, oltre ovviamente alle piccole grandi innovazioni grafiche (su cui ci soffermeremo in seguito), così come gli elementi sovrannaturali - e persino mistici - presenti nella trama. Senza voler anticipare troppo, dopo la comparsa di alcune immagini anche allegoriche, ci viene mostrato un vero e proprio inferno dantesco, con tanto di gironi e di rappresentazione visiva alla Gustave Doré. Un messaggio (anche se forse non l'unico) che si può trarre dall'intero percorso narrativo è molto eloquente: la considerazione che il vero inferno è la guerra stessa, nel suo lato più totalizzante e disumanizzante, che costringe gli uomini a estremizzare il bene e il male che hanno dentro. Sotto un'altra ottica, l'intero percorso dei soldati potrebbe essere visto [e qui c'è uno SPOILER] come un viaggio post-mortem (supponendo che prima dell'inizio tutti i personaggi siano davvero passati a miglior vita, magari per assideramento, nel gelo delle lande russe), un viaggio verso il luogo in cui la loro esistenza sarà valutata: la storia sarebbe così una sorta di lungo e insidioso Purgatorio, con tanto di interrogatorio per soppesare il valore delle azioni compiute in vita (e in parte l'ultima tavola potrebbe avvalorare questa interpretazione) [Fine dello SPOILER].
Molto suggestiva poi la nota metafumettistica inserita dall'autore nel finale, che ben si adatta alle caratteristiche della storia stessa: essendo Ecrienne un scrittore (o perlomeno un aspirante tale), Tito Faraci può mettergli in bocca alcune riflessioni sulle aspettative dei lettori nei confronti del finale di una storia, aspettative che è difficilissimo ripagare dato che facilmente si ricade o nell'effetto "spiegone" (dunque narrando tutto per filo e per segno, lasciando scontento chi vuole libero spazio per la propria fantasia) o nell'effetto "finale aperto" (provocando la reazione di sdegno del lettore che invece avrebbe desiderato maggiori informazioni sulle cause di uno specifico evento della storia). Ironicamente, questo episodio rientra appieno tra quelli in cui il finale ha un certo peso nell'economia della storia (anche per via delle varie interpretazioni lasciate aperte, come accennato poc'anzi), sebbene vada sottolineato come Faraci riesca a cavarsela brillantemente con una certa poeticità e con un colpo di scena finale.
Insomma, dopo un Texone da antologia (disegnato magistralmente da Enrique Breccia e da noi recensito qui) e un Color Tex particolarmente solido e scorrevole (La pista dei Siuox, per i disegni di Mario Milano), un altro gran colpo bonelliano va a segno per il buon Tito. Eravamo dunque quasi tentati di definire l'intera stagione che termina a settembre come "l'estate di Tito Faraci", se non fossimo stati poi "distratti" dal comparto grafico della storia. Troppe righe sarebbero necessarie per analizzare e restituire degnamente - a chi non avesse avuto la fortuna di ammirarle dal vivo su carta - le straordinarie tavole di Pasquale Frisenda, tornato ai livelli di Patagonia (l'entusiasmante Texone realizzato su testi di Mauro Boselli, recentemente ristampato da Bao), anzi se possibile addirittura più in alto.
Per chi come il sottoscritto ha conosciuto il fumetto anche grazie alla saga western atipica e umanissima di Ken Parker, il nome di Frisenda non può non riportare alla mente innanzitutto l'ultima (e in parte forse meno nota) stagione dell'antieroe di Berardi & Milazzo, con storie quali Umana avventura, L'arresto e I condannati, che ne hanno fatto in assoluto uno degli eredi dello stesso Ivo Milazzo. Dopo le esperienze su Magico Vento, Tex e (persino una capatina su) Dylan Dog, Frisenda aveva evidentemente ancora qualcosa da sperimentare, alcune frecce nel suo arco da scagliare. Particolarmente azzeccato in Sangue e ghiaccio l'utilizzo della mezzatinta, tecnica che Frisenda padroneggia da maestro, con l'inedita aggiunta selettiva di un colore: le tante gradazioni di grigio vengono infatti squarciate da un rosso talora intenso e altre volte sfumato, usato esclusivamente per dar corpo al calore di un fuoco, allo scorrere del sangue e alla presenza di un mostro gigantesco, per poi esplodere letteralmente nelle scene infernali, invadendo completamente le tavole.
Merita un plauso la sequenza da manuale delle prime due tavole, in cui il disegnatore milanese scardina l'usuale griglia compositiva bonelliana con gran disinvoltura, passando dal nero assoluto al dettaglio di un occhio, da un volto a un quadro, per terminare con una desolante panoramica. Ogni elemento consecutivo di questa matrioska visiva è contenuto all'interno del successivo (l'occhio nel volto, il volto nel quadro, il quadro nel panorama), a indicare la progressione in allontanamento dello sguardo.
In copertina, Aldo Di Gennaro realizza l'ennesimo quadro particolarmente suggestivo, in grado di rappresentare degnamente il clima della narrazione con un'illustrazione classica ma molto accattivante.
Sangue e ghiaccio è dunque una sorta di evento raro a verificarsi. È il risultato di un soggetto con tante intriganti chiavi di lettura, di una sceneggiatura solida che diviene man mano più incalzante e di tavole una più bella dell'altra, da ammirare e incorniciare. Un albo particolarmente riuscito, di certo tra i migliori in assoluto nei quasi quattro anni di vita della collana Le Storie.
[Nell'interpretazione dell'albo potremmo produrre qualche piccolo e insensibile spoiler, augurandoci di non far danni!]
"Come posso descrivere il freddo e l'orrore?"
Il quarantasettesimo numero de Le Storie è ambientato alla fine del 1812, nella Russia dello Zar Alessandro I (come ci anticipa il solito puntuale Gianmaria Contro nell'introduzione dell'albo). La Grande Armata napoleonica è attanagliata dall'ambiente ostile, dalla fame e da una campagna militare che si è protratta ben oltre il previsto (e senza ottenere i risultati sperati) e tutti questi fattori costringono i soldati francesi a un mesto ritiro. In tale contesto, la vita del caporale Germain Ecrienne viene letteralmente cambiata dall'intervento del capitano Lozère, che lo salva da morte certa. Ecrienne sarà il settimo componente di una truppa sfibrata e stanca, costretta a viaggiare in un implacabile "deserto di neve". I soldati vanno incontro a una donna, che li condurrà verso qualcosa di sinistro e apparentemente inafferrabile.
Della trama preferiamo non svelare altro, se non che il flusso della narrazione viene periodicamente interrotto da un interrogatorio, che scopriamo svolgersi successivamente, in cui Ecrienne, aspirante scrittore, si prodiga nel descrivere a parole ciò che ha dovuto affrontare.
Molto interessante sarebbe ricostruire la simbologia del numero di soldati protagonisti della storia (sette come i samurai di Akira Kurosawa o come le anime dannate di Tiziano Sclavi e Corrado Roi), oppure confrontare l'ambientazione innevata con quella dell'ultimo lungometraggio di Quentin Tarantino (quel The Hateful Eight che ha un solo personaggio in surplus rispetto agli altri riferimenti). Ma queste suggestioni si riducono di fatto solo a mere impressioni soggettive... L'ambientazione dell'epoca napoleonica sicuramente contribuisce al fascino e all'originalità dell'episodio, oltre ovviamente alle piccole grandi innovazioni grafiche (su cui ci soffermeremo in seguito), così come gli elementi sovrannaturali - e persino mistici - presenti nella trama. Senza voler anticipare troppo, dopo la comparsa di alcune immagini anche allegoriche, ci viene mostrato un vero e proprio inferno dantesco, con tanto di gironi e di rappresentazione visiva alla Gustave Doré. Un messaggio (anche se forse non l'unico) che si può trarre dall'intero percorso narrativo è molto eloquente: la considerazione che il vero inferno è la guerra stessa, nel suo lato più totalizzante e disumanizzante, che costringe gli uomini a estremizzare il bene e il male che hanno dentro. Sotto un'altra ottica, l'intero percorso dei soldati potrebbe essere visto [e qui c'è uno SPOILER] come un viaggio post-mortem (supponendo che prima dell'inizio tutti i personaggi siano davvero passati a miglior vita, magari per assideramento, nel gelo delle lande russe), un viaggio verso il luogo in cui la loro esistenza sarà valutata: la storia sarebbe così una sorta di lungo e insidioso Purgatorio, con tanto di interrogatorio per soppesare il valore delle azioni compiute in vita (e in parte l'ultima tavola potrebbe avvalorare questa interpretazione) [Fine dello SPOILER].
Molto suggestiva poi la nota metafumettistica inserita dall'autore nel finale, che ben si adatta alle caratteristiche della storia stessa: essendo Ecrienne un scrittore (o perlomeno un aspirante tale), Tito Faraci può mettergli in bocca alcune riflessioni sulle aspettative dei lettori nei confronti del finale di una storia, aspettative che è difficilissimo ripagare dato che facilmente si ricade o nell'effetto "spiegone" (dunque narrando tutto per filo e per segno, lasciando scontento chi vuole libero spazio per la propria fantasia) o nell'effetto "finale aperto" (provocando la reazione di sdegno del lettore che invece avrebbe desiderato maggiori informazioni sulle cause di uno specifico evento della storia). Ironicamente, questo episodio rientra appieno tra quelli in cui il finale ha un certo peso nell'economia della storia (anche per via delle varie interpretazioni lasciate aperte, come accennato poc'anzi), sebbene vada sottolineato come Faraci riesca a cavarsela brillantemente con una certa poeticità e con un colpo di scena finale.
Per chi come il sottoscritto ha conosciuto il fumetto anche grazie alla saga western atipica e umanissima di Ken Parker, il nome di Frisenda non può non riportare alla mente innanzitutto l'ultima (e in parte forse meno nota) stagione dell'antieroe di Berardi & Milazzo, con storie quali Umana avventura, L'arresto e I condannati, che ne hanno fatto in assoluto uno degli eredi dello stesso Ivo Milazzo. Dopo le esperienze su Magico Vento, Tex e (persino una capatina su) Dylan Dog, Frisenda aveva evidentemente ancora qualcosa da sperimentare, alcune frecce nel suo arco da scagliare. Particolarmente azzeccato in Sangue e ghiaccio l'utilizzo della mezzatinta, tecnica che Frisenda padroneggia da maestro, con l'inedita aggiunta selettiva di un colore: le tante gradazioni di grigio vengono infatti squarciate da un rosso talora intenso e altre volte sfumato, usato esclusivamente per dar corpo al calore di un fuoco, allo scorrere del sangue e alla presenza di un mostro gigantesco, per poi esplodere letteralmente nelle scene infernali, invadendo completamente le tavole.
Merita un plauso la sequenza da manuale delle prime due tavole, in cui il disegnatore milanese scardina l'usuale griglia compositiva bonelliana con gran disinvoltura, passando dal nero assoluto al dettaglio di un occhio, da un volto a un quadro, per terminare con una desolante panoramica. Ogni elemento consecutivo di questa matrioska visiva è contenuto all'interno del successivo (l'occhio nel volto, il volto nel quadro, il quadro nel panorama), a indicare la progressione in allontanamento dello sguardo.
In copertina, Aldo Di Gennaro realizza l'ennesimo quadro particolarmente suggestivo, in grado di rappresentare degnamente il clima della narrazione con un'illustrazione classica ma molto accattivante.
Sangue e ghiaccio è dunque una sorta di evento raro a verificarsi. È il risultato di un soggetto con tante intriganti chiavi di lettura, di una sceneggiatura solida che diviene man mano più incalzante e di tavole una più bella dell'altra, da ammirare e incorniciare. Un albo particolarmente riuscito, di certo tra i migliori in assoluto nei quasi quattro anni di vita della collana Le Storie.
Il sommo audace
(con l'insostenibile supporto di Grullino Biscottacci)
SERIE: Le storie
NUMERO: 47
DATA: agosto 2016
SERGIO BONELLI EDITORE
SOGGETTO E SCENEGGIATURA: Tito Faraci
DISEGNI E CHINE: Pasquale Frisenda
COPERTINA: Aldo Di Gennaro