TEX MAGNUS
Il WA-ZA'M che accende la striscia in basso, a pagina 25, dà luce alla luce. E' lampo che oscura, nella mente, il buio sulla carta assente. La pioggia che attraversa sfondi e figure dove la storia comincia e finisce (qui annunciata da vento che muove polvere e pagine, quasi a sfogliarle), lascia segni di vita nel passaggio e rimbalzi e cerchi d'armonia in prossimità dell'impatto: piedi nudi vi danzano, e, a portata d'orecchio, risuonano. Bagnati. Un incanto.
Sì, la sfida «da far tremare i polsi» era vinta e persa al tempo stesso (elogio dell'umana mortalità): il Tex di Roberto Raviola, in matita Magnus, mi scorre sotto gli occhi almeno una volta l'anno, da quel 1996 in cui Castel del Rio annunciava due epiloghi in uno e il "cammeo" donato, marginalmente, nell'ultimo quadro, ne accompagnava, con fiera malinconia, il più ineluttabile e irreversibile. Ogni volta è come entrarci dentro, è come smarrirsi e ritrovarsi in prospettive e primissimi piani, orizzonti aperti e giochi d'ombra, è come percepire l'odore di radici e di fogliame, è come inebriarsi di nero d'inchiostro e di luna, mai così intenti a contendersi la luce e il buio, il pieno e il vuoto, espressione massima di complementarità, di dualità vitale. Di simbiosi esistenziale.
Ma la magìa magnusiana va oltre: riporta a strisce minute aperte tra le grandi dita di mio padre, a «La mano rossa» gigante, al Bonelli invisibile tra le nuvole, ad Aurelio Galeppini e al suo Tex disegnato alla Galep, aspettando Magnus. Comprime il tempo (il suo e il mio) dilatandolo, il Texone del maestro. L'ossimoro si consuma in un attimo. In un WA-ZA'M che illumina e atterrisce (o viceversa): il non tempo su carta. E dentro di noi.
Francesco Romano
(Ringraziamo l'audace Francesco Romano per averci regalato queste sue "quaranta righe", con affetto)