TEX MAGNUS


Il WA-ZA'M che accende la striscia in basso, a pagina 25, dà luce alla luce. E' lampo che oscura, nella mente, il buio sulla carta assente. La pioggia che attraversa sfondi e figure dove la storia comincia e finisce (qui annunciata da vento che muove polvere e pagine, quasi a sfogliarle), lascia segni di vita nel passaggio e rimbalzi e cerchi d'armonia in prossimità dell'impatto: piedi nudi vi danzano, e, a portata d'orecchio, risuonano. Bagnati. Un incanto.


Ho tra le mani il Texone disegnato da Magnus («La valle del terrore»: l'originale, già pezzo d'antiquariato), e penso ai sette anni di lavoro del maestro. Penso alla sceneggiatura di Claudio Nizzi messa in valigia e all'albergo di Castel del Rio, tra gli Appennini che non ho mai visto (o forse sì, più giù, una volta soltanto, anch'io immerso in foglie puntiformi e campi sterminati): fortino scelto per «resistere a oltranza». Ripasso a memoria, con lo sguardo sospeso in Tex-Magnus, i «bianchi-e-i-neri-noir» di Satanik e Kriminal (la K nel nome, inseguendo Diabolik: il "terrore", assurto a regno, nel destino) che fecero scuola negli anni miei adolescenziali. Rivedo i volti femminili, ora duri, più in là eterei e distesi, mai banali, che resero inconfondibili i tratti del maestro, e il Willer formato A4 firmato Magnus riesce, puntualmente, a darmi emozioni ancora più grandi.
Sì, la sfida «da far tremare i polsi» era vinta e persa al tempo stesso (elogio dell'umana mortalità): il Tex di Roberto Raviola, in matita Magnus, mi scorre sotto gli occhi almeno una volta l'anno, da quel 1996 in cui Castel del Rio annunciava due epiloghi in uno e il "cammeo" donato, marginalmente, nell'ultimo quadro, ne accompagnava, con fiera malinconia, il più ineluttabile e irreversibile. Ogni volta è come entrarci dentro, è come smarrirsi e ritrovarsi in prospettive e primissimi piani, orizzonti aperti e giochi d'ombra, è come percepire l'odore di radici e di fogliame, è come inebriarsi di nero d'inchiostro e di luna, mai così intenti a contendersi la luce e il buio, il pieno e il vuoto, espressione massima di complementarità, di dualità vitale. Di simbiosi esistenziale.
Ma la magìa magnusiana va oltre: riporta a strisce minute aperte tra le grandi dita di mio padre, a «La mano rossa» gigante, al Bonelli invisibile tra le nuvole, ad Aurelio Galeppini e al suo Tex disegnato alla Galep, aspettando Magnus. Comprime il tempo (il suo e il mio) dilatandolo, il Texone del maestro. L'ossimoro si consuma in un attimo. In un WA-ZA'M che illumina e atterrisce (o viceversa): il non tempo su carta. E dentro di noi.
Francesco Romano

(Ringraziamo l'audace Francesco Romano per averci regalato queste sue "quaranta righe", con affetto)





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