Due fumetti per combattere l'estate

Due letture antispiaggia, diverse tra loro, entrambe preziose

L’estate ha un problema terribile, ed è il solipsismo. L’estate è schizofrenicamente egocentrica, ha quella petulanza narcisista – quindi nondimeno infantile – di voler essere contemporaneamente miraggio e meta, proposito, sollievo: ai compleanni vuol essere la festeggiata, ai funerali la morta. Finisce proiettata alla sua prossima venuta, e il resto delle stagioni le orbitano intorno in un costante perielio.

Potremmo proseguire a lungo in questa direzione, ma alla fine il punto è: l’estate, per la sua attuale natura, è un costrutto. L’ennesima trappola che ci siamo fatti da soli. Ma come tale, come costrutto, sa essere talvolta anche mortalmente malinconica, tra spazi ampi e caldo che trafigge, in quei frangenti dove ci si ferma a pensare un po’ più a fondo dell’estasi bollente. C’è tutta una serie di possibilità percettive subreali, in questi pregni mesi, che quando indagate sanno mostrare dei vuoti spaventosi, e la sensazione è quella di calarsi in una gola di minerali. Difatti, siamo alla seconda metà di agosto, il che vuol dire che dell’estate resta un mese scarso: brividino di freddo, eh?

Ebbene, qui dal mite pianeta Audaci abbiamo pensato di consigliarvi delle letture per sopravvivere ai sorrisi smeriglianti e alle gioie di plastica estive, sicché per accompagnarvi lentamente – terapeuticamente, qualcuno potrebbe dire – verso l’uscita da queste settimane lisergiche e tornare alla vita di tutti i giorni senza quella voce insopportabile che bisbiglia in entrambe le orecchie: “Sbrigati, devi prenotare il volo per l’anno prossimo”. Letture antispiaggia, antivento, anticalippo. Due letture come due fratture scomposte, fredde come una sala operatoria ma nondimeno meravigliose come la scienza che la corrobora. Solo, non aspettate l’anno prossimo per iniziarle.

FUORI FUOCO – DASH SHAW

Il fumettista americano più stereotipicamente associato al concetto di narrazione ombelicale torna con un fumetto, be’, ombelicale. Fuori Fuoco consiste di una voce spaventosamente polifonica e interiore, narrativo nel suo non avanzare come molta della letteratura “autoconsapevole” degli ultimi decenni ha fatto, e in tal senso la sua ombelicalità potrebbe apparire noiosamente nota. Ciò che però dà al lavoro la giusta dimensione di novità, ricercatezza e autorialità, sta nell’evidente mutamento della concezione di fumetto che Dash Shaw sembra qui postulare.

Intanto, è un fumetto che non è del tutto ben visibile. Isomorfico al proprio titolo, Fuori Fuoco è effettivamente un lavoro blurrato, presentato e raccontato dietro a un filtro che l’autore costruisce tanto con la monocromia quanto con gli spazi vuoti del tratto, in tal senso anch’essi disegnati. La maniera della matita di Shaw esplicita incompletezza, cavità che inquietano per la propria percepibile presenza al pari dell’evidente – poiché inindividuabile – incolmabilità.

Ogni personaggio (qui sono davvero parecchi), da Karetzky, professore d’arte convoluto nella propria frustrazione, a Christie, scrittrice di fama un po’ per caso, vive in una condizione di incompletezza che è palese nel racconto ma incarnata nella forma, nello spaesamento del proprio corpo disegnato, e conseguentemente negli ambienti che attraversa. In questo modo il bianco diventa talvolta opprimente, quella sensazione di incolmabilità lacaniana che quotidianamente siamo per natura portati a reprimere sotto i tappeti della nostra vita conscia, e insieme alla scelta anti-cromatica – e antinomica rispetto alla corposità del pool di protagonisti – e al placido e opaco ritmo del racconto, il fumetto riesce infine nel recludere il lettore in una sorta di gabbia dalla pasta gommosa ed extrasensoriale, una paradiegesi che costringe all’osservazione e al contempo ne esalta il disagio conseguente.

E a proposito di narrazione, un’altra cosa importante viene fatta da Fuori Fuoco, nell’ottica di rimanere coerente con il proprio genere senza subire il retaggio del proprio autore: questo fumetto esalta la fondamentale natura del singolo. C’è una presa di posizione che, se non vogliamo definire filosofica, possiamo però esporci nell’indicare come almeno vagamente politica, in termini di esistenzialismo. La vicinanza alla forma del romanzo non è una novità, anzi. Ma l’effetto corale proprio di questa scelta non passa, in Fuori Fuoco, da una connessione fluida e da un racconto dunque oleoso: qui tutto è bloccato, rotto, in una scelta da prendere. Ogni personaggio, infatti, si trova imbambolato davanti a un bivio, spesso per altro di natura veniale – la scelta di un gusto per il gelato, ad esempio – che invero nasconde una crucialità spaventosa. L’idea alla base è che il Tutto, la complessa totalità delle cose e delle persone, passa dalle scelte singole dei singoli. Il suo comporsi in qualcosa di più grande è solo una caratteristica accidentale del mondo, perché per il resto siamo soli, e come tali scegliamo.

Questo scontro con l’idea stereotipica del romanzo come liquida coralità incarna il diverbio filosofico di Kierkegaard con l’Idealismo, e proprio come il filosofo danese anche Shaw sembra darci la stessa risposta: siamo tante piccole, inani cose, che nella loro apparente futilità ci compongono. Siamo futili, anzi, in generale. E tolto questo, rimangono solo schegge e frammenti di un più grande insieme che richiede di essere ricomposto (e qui Dash Shaw si concede anche alla metanarrativa, ripetendo il concetto con una citazione del professor Karetzky che qui vuole andare a parare: rimettere tutti i pezzi insieme. A voi scovarla).

In conclusione, Fuori Fuoco è un fumetto che si eleva dalla media per le intenzioni e la rigidità delle proprie scelte, coerente con sé stesso e con il proprio autore ma non per questo succube, che nella sua totale opacità e nel suo mogio scorrere – o per meglio dire, comporsi – esalta una condizione verso cui indubbiamente molti troveranno adiacenza, una catalessia esistenziale che nelle storpiature del disegno, al pari di un linguaggio talvolta improvviso, imprevisto e quasi anamorfico nelle parole dei suoi protagonisti, porta avanti una precisa idea di fumetto, per altro rinnovando la propria estetica con un’evidente influenza di quelli che, negli ultimi anni, sono stati fautori del nuovo fumetto americano o mondiale – David Mazzucchelli e Kevin Huizenga su tutti.

UN PICCOLO OMICIDIO – ALAN MOORE E OSCAR ZARATE

Non ci sono supereroi, maghi, creature, massoni, leghe e altre varie, schizzate personalità. Eppure si tratta sempre di Alan Moore. E molto probabilmente, di uno dei migliori Moore fra i tanti

La genesi di questo fumetto è importante per leggerne il contenuto: il Bardo e la DC avevano appena firmato le carte per il divorzio, dopo minacce di censura e altre petulanze tipicamente corporate, in un periodo in cui l’autore manifestava e necessitava di emanciparsi dalla narrativa supereroistica che lo aveva reso famoso.

È il 1991, Moore si è rifugiato in Europa, ha fondato la propria rivista e ha iniziato a pubblicare From Hell (il fatto che Un piccolo omicidio, per la qualità di cui gode, sia stato scritto in sovrapposizione a quello che per chi vi scrive non solo è il miglior fumetto di Alan Moore, ma uno dei migliori di sempre, lo rende ancor più prezioso e straordinario). È il 1991, e c’è un lato di mondo che si è appena aperto all’Occidente, ovviamente, fallocraticamente, pronto a penetrarlo. È il 1991 e il pianeta è diventato più piccolo, vagiti internettiani e poi il libero mercato che si è canonizzato nel concetto di “quotidiano”, grazie a creature come Ronald Reagan e Margaret Thatcher che, frattanto che piantavano i semi di alcuni dei peggiori disagi socioculturali della storia recente – le cui eco stiamo respirando tuttora in una grottesca ipernormalizzazione di un presente ulcerato – sono appena riusciti, qualche anno addietro, anche nel capolavoro comunicativo di ergersi a mediatori dell’Occidente nelle sconosciute terre sovietiche, portatori di un nuovo equilibrio che non avrebbe potuto dirsi altro che “salubre”.

È il 1991 e Timothy Hole, prodigio della pubblicità, è incaricato di portare avanti una campagna pubblicitaria in Russia, per la prima volta, di una bibita americana. Questo è Un piccolo omicidio. Semplice, geniale e dal pretesto abbastanza facile da afferrare, allegoricamente parlando. Non fosse che Timothy Hole, in procinto di recarsi in Russia, vedrà il proprio cammino incrociarsi con quello di un bambino, a suo seguito per ucciderlo.

La bellezza di questo fumetto sta in davvero tanti, tantissimi livelli e sottolivelli, molti dei quali rientrano per altro nel campo minato dello spoiler. Ma indubbiamente un paio di cose possiamo tirarle in ballo: in primis, la volontà di rottura di Moore, che qui adotta una narrazione “a flusso” terribilmente ingombrante, una narrazione paratattica e rotta, supportata di una griglia spesso meno ritmica di quella a nove vignette per cui è noto lo scrittore, e sorretta da un linguaggio di legami semantici o strutture frasali che rispecchiano il convolversi del sogno e dell’incoscienza. E questo perché Timothy Hole (lapalissiano sottolineare le intenzioni dietro al nome) è un uomo crivellato non tanto da sé stesso, quanto più dal suo rappresentare il sistema, saprofago, di cui è parte e che lo ha partorito. Come Rosemary Woodhouse viene mangiata dall’interno dal feto che porta in grembo, così Timothy Hole è perforato dalle sue gesta come un riflesso dell’egotismo anfetaminico che lo circonda, una marionetta del consumo venefico di cui egli, in quanto pubblicitario, è lo spaesato tedoforo.

Il viaggio di Hole, scoprirà il lettore, non è coerente con le premesse dell’incipit, in un certo senso “entropico” come vuole il sistema in cui si trova. Non vedremo mai Hole andare in Russia, se non con il pensiero e l’angoscia di performare. Il viaggio redentorio del fumetto accompagna invece indietro nel tempo, nella carriera e nella vita del protagonista, da New York a Londra e poi Sheffield (scelta non casuale anch’essa, essendo stata Sheffield una roccaforte dell’agitazione comunista), in una discesa vereconda dentro sé stesso che tramite la crescente ponderazione evade l’angoscia prestazionale del sistema, dal quale la fuga il racconto esalta. Il prezzo, però, di evadere da questa idea di mondo? Venire a patti con sé stessi; e, nei termini di Un piccolo omicidio, trovarsi faccia a faccia con il proprio attentatore, un bambino qualsiasi, alle calcagna di Hole come un’ombra.

In secundis, il disegno e i colori sconvolgenti e straordinari, quasi feerici, di Oscar Zarate, artista di quella scuola argentina emigrata in Europa, che negli ovvi Muñoz e Sampayo ha i propri pionieri. La scelta di Moore di dilatare il racconto per farlo per incespicare, trascinarsi quasi allucinato, esalta il disegno di Zarate tramite gli spazi paratestuali che ne conseguono, in un compendio che per cromie viaggia dal fauvismo – l’incandescenza di un’intersocialità tecnofila e di un vociare senza padroni – a una grevità vagamente inquietante e sospesa propriamente postimpressionista – nelle notti e nelle ambientazioni bucoliche. Le tavole di Zarate sono quasi politiche nell’esaltare i propri retaggi, e la cosa magnifica è il risultato che, soprattutto nelle vignette ad ampio respiro, colpisce imprevedibile l’occhio di chi legge, unendo le concezioni spaziali e le gerarchie visive della scuola pubblicitaria (Zarate, prima di diventare fumettista, lavorò diversi anni proprio in quel campo) alla raffinatezza di una tradizione europea che omaggia in particolar modo Valvoline, il tratto del primo Igort e la suppuranza sovrasensibile di Mattotti.

Un piccolo omicidio è un fumetto di enorme preziosità, sia per i modi e i tempi in cui nasce e viene pubblicato, sia per la lucidità estetica con cui ci parla. Un fumetto che, all’osso, è faziosamente marxista, ma che nondimeno sa comportarsi terapeuticamente nel suo cinismo schietto, accompagnando la carcassa di un uomo costretto a guardarsi allo specchio (e quindi costringendo anche noi) nel punto più lontano possibile dalle plaghe siderurgiche e strutturali dell’obbligo e della funzionalità, elevandosi a manifesto dell’arma del racconto come l’ultima molotov dell’agitazione, bruciante di una necessaria – fintanto che l’umanità sarà una caratteristica auspicabile – discesa a ritroso dentro noi stessi. Perché, alla fine, cos’è un essere umano se non una moviola perpetua? 

Jacopo Corradini


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