Dossier AkaB: l'uomo oltre l'artista - seconda parte

I ricordi e l'eredità umana, oltre che culturale e fumettistica, di un artista che ha attraversato e riplasmato la scena underground italiana

La memoria può essere un percorso condiviso e comporsi di tanti frammenti di ricordi, ripercorrendo il lascito nelle persone conosciute nel corso degli anni o in chi ci ha scoperto (anche tardivamente) attraverso l'arte. 

Nel nostro Dossier AkaB, attraverso articoli, recensioni, approfondimenti e puntate di Building Stories dedicati ad AkaB, stiamo cercando di riportare alla luce l'eredità artistica e culturale di Gabriele Di Benedetto. Un percorso tematico in cui, oltre a concentrarci sull'arte e sulle opere (come Le mani di Z o Non un atomo...), abbiamo indagato anche l'essere umano nelle parole di Squaz, Officina Infernale, Marco K Galli, Alberto Ponticelli e Dario Panzeri (trovate il pezzo qui).

È un modo per provare a comprendere cosa si lascia nelle persone che si hanno intorno, che si tratti della redazione di una casa editrice molto vicina come Eris Edizioni o di persone che hanno condiviso un percorso importante come il Progetto Stigma (e in particolare Pablo Cammello, Spugna, Darkam e Marco Gnaccolini, ma idealmente includiamo tutte le persone che hanno partecipato al progetto) o, infine, chi ne ha raccolto l'eredità, come ArchiviodiFerro (Federica Ferraro) o Titta D'Onofrio.

ERIS EDIZIONI (REDAZIONE)

Lavorare con AkaB a un progetto pazzesco come è stato Stigma, confrontarci con lui sulle dinamiche del mercato editoriale, sulle visioni del fumetto, sugli stili e le ricerche, ci ha fatto andare oltre il suo lavoro autoriale e ci ha fatto capire una delle sue caratteristiche essenziali: la capacità di mettere in connessione tra loro le persone. Persone di ambienti diversi, di realtà anche in contraddizione tra di loro, artisti con sensibilità appartenenti a stili e generazioni lontanissime. Stigma è la dimostrazione lampante di tutto questo. Ci sono esordi di fianco a nomi come AkaB stesso o Marco Galli, progetti a più mani, una fucina di idee e complicità che ha lasciato il segno e che possiamo ritrovare in tanti progetti nati negli ultimi anni influenzati da quell’esempio.

La sua visione artistica, la sua ricerca personale, riuscivano a restare in dialogo costante con quella degli altri, creando reti che potessero trasformarsi in progetti e situazioni interessanti, basati su complicità artistiche e voglia di mettersi in gioco.

Per questo che crediamo che oggi l’associazione AkaB stia facendo un lavoro grandioso, perché non sta museificando la grande eredità artistica di AkaB o le sue opere, ma le sta mantenendo attuali e vive, in dialogo con il presente, facendolo scoprire a nuove persone e nuove generazioni.

SPUGNA

La cosa che più ricordo con affetto di Akab era come conciliava la sua natura di irresistibile provocatore, che cercava spesso anche di buttare tutto in caciara, con però la massima curiosità e onestà intellettuale possibile verso le cose che osservava. Era un bambino che grida che il re è nudo, travestito da omone barbuto e tatuato vestito tutto di nero. Ridacchiante.


PABLO CAMMELLO

Giro in bicicletta

Ho visto Akab il giorno dopo che ha chiuso il libro Le Mani di Z.

Era svuotato completamente, apatico, stava progettando quel libro da sempre e ora era finalmente concluso.

Dovevamo prendere un treno da Milano e arrivare fino a un festival in un paesino del Lazio.

In quel viaggio ci ha raccontato che la sera prima, dopo aver chiuso il libro, ha preso la bici e si è messo a girare per Milano di notte, nel buio, senza una meta. Ha detto che era la prima volta che lo faceva, voleva provare.

Quando poche settimane dopo se n’è andato ho pensato che i ricordi che avevamo di lui ora valevano tantissimo.

Delle pepite d’oro da custodire nella memoria.

Ogni frase che ci aveva detto, ogni racconto di lui era un pezzo di un puzzle che andava a costruire una persona ultra sfaccettata, mutevole, ragionevole e irrazionale assieme.

Era tante cose contemporaneamente, poteva raccontarti una cazzata e fartela credere per mesi, come dirti in faccia la verità più nuda e scabrosa.

Ed era anche quello (forse), uno che pedala in bici di notte.

DARKAM

Il mio primo incontro con Akab è stato quando, all’inizio del mio viaggio nel fumetto, mi sono trovata in mano Re Volver. Quel libro ha scardinato tutto, perché se si poteva fare qualcosa del genere, allora valeva tutto. Se quello era fumetto, allora anche io volevo fare fumetto.

Tanti anni dopo, per tutta la nostra amicizia, Akab ha continuato ad avere su di me lo stesso effetto.
Sono uscita da casa sua più volte piangendo, pensando che non avrei più disegnato. (Spoiler: per poi sbloccare qualcosa di completamente diverso dentro)
Mi ha mostrato, probabilmente senza volerlo, il potere trasformativo delle crisi. È stato un specchio deformante.
Altre volte, invece, uscivo da lì così carica che tutto sembrava avere un senso.
Ha creduto in alcuni miei progetti, prima che io fossi in grado di farlo.

E ogni volta tornavo con così tanto da digerire per giorni, perché c’era sempre qualcosa che spostava, anche solo di qualche grado, l’asse.

Le mezze misure, le scale di grigi, i convenevoli, con Akab non esistevano.
Era fatto di abissi e di cime altissime.
Il re, per lui, era sempre nudo.
Sembrava in grado di vedere tra le trame, al di là delle facciate, di percepire le ottave più alte e più basse dell’universo. E allo stesso tempo era così fallibilmente, meravigliosamente umano.

Creava come un vulcano. Apparentemente immobile per tanto tempo, dormendo, guardando film, leggendo. Poi sembrava esplodere e vomitare un libro intero in nottate febbrili e Insonni.
Gli invidiavo questa allergia alle regole e alle strutture.
Nonostante i suoi spigoli, o forse proprio grazie a quelli, sapeva connettere le persone ad un livello profondo. Forse perché sembrava in grado di vedere dietro alle quinte di ognuno.
È stato, credo per tant*, un insegnate nel senso più fedele all’etimologia della parola.
In- Signare, imprimere. Signum: marchio, sigillo.
Perché era in grado di vederti, e di trasmetterti un metodo diverso di approccio alla realtà.

Non è facile avere a che fare con qualcuno così spietatamente onesto.
Ma se hai la fortuna di incontrare persone che sono in grado di farti mettere in discussione tutto, che ribaltano tavoli e punti di vista, allora quello è un regalo.

Qualcuno che ti ricordi sempre che c’è quello che hai davanti agli occhi, ma che c’è anche molto di più.
Qualcuno che ti ricordi che, comunque, vale tutto.


MARCO GNACCOLINI

Per Akab

Akab per me era essere rischio.
Akab per me era rischioso.
Akab per me era rischiarante.
Akab per me era una riscossa.
Akab per me era una riscossione.
Akab per me era riscoprire.
Akab per me era scorporare.
Akab per me era sconcertare.
Akab per me era scomodare.
Akab per me era notte.
Akab per me era cime più alte.
Akab per me era graffio.
Akab per me era nero d’occhiaia.
Akab per me era bianco grandine.
Akab per me era grondante.
Akab per me era stigma.
Akab per me era una canna.
Akab per me era uno schiaffo.
Akab per me era un agosto.
Akab per me era un vuoto.
Akab per me era una Z.
Akab per me era tecnica.
Akab per me era ferocia.
Akab per me era squarcio.
Akab per me era febbre.
Akab per me era un adesso.
Akab per me è essere rischio.



ARCHIVIODIFERRO (FEDERICA FERRARO)

Un giorno un'amica mi portò quello che sarebbe stato il salto, la rottura, la folgorazione. "Questo TU lo devi vedere". Io non ne sapevo niente, ero innamorata di tante cose, ma niente gli si poteva davvero avvicinare. Tutti gli autori che guardavo con ammirazione erano troppo lontani nel tempo per potermene innamorare così visceralmente come successe con lui. Mi mise fra le mani Monarch di Akab. Avevo appena superato l'adolescenza, disegnavo, disegnavo tanto. Guardavo Durer e Bacon, la contemporaneità mi disgustava. E leggevo in una maniera ossessiva tutti coloro che erano capaci di oltrepassare i confini del tempo e trasmettermi come una malattia il loro dolore. 

Ecco, lessi Monarch, non ci capii niente ma lo sentii così profondamente che, all'epoca non lo sapevo, divenne uno dei miei più grandi traumi. Così come l'arrivo delle mestruazioni, la prima scopata, l'incontro con Akab. 

Nel tempo il lavoro di Akab é stato sempre il luogo in cui rifugiarmi ogni volta che avevo dei dubbi su quello che facevo. Era capace di dirmi ogni volta che no, non stavo sbagliando e che lui poteva capirmi. Che fare un disegno che non fosse bello ma che fosse più simile ad una tortura non aveva niente che non andava. Lui non mi giudicava e anzi, mi spronava a rimanere in contatto profondo col mio dolore. Mi diceva che se lo sentivo, che se quello che facevo era autentico, allora ne valeva la pena.

Il lavoro di Akab, senza che Gabriele lo sapesse, é stato uno dei motivi per cui non mi sono mai vergognata di raccontare il mio dolore.

TITTA D'ONOFRIO

Scrivere di lui non è stato facile. Farlo ha significato riaprire una ferita che, forse, non si è mai davvero rimarginata. A volte, ci si ostina a non voler accettare la realtà. Ma quei ricordi, quei momenti vissuti insieme, restano una gioia indelebile, che nemmeno il dolore riesce ad offuscare.

Lo incontrai per la prima volta di persona quando venne come ospite allo Sputnik Festival, una rassegna di fumetto e musica in Basilicata. Da buon “magno greco”, per me l’ospitalità è sacra. E in quell’occasione, indimenticabile fu portarlo di notte a vedere i Calanchi, quelle suggestive formazioni argillose tipiche della Lucania, rischiarate solo da una luna che sembrava un sole notturno. Parlammo a lungo di musica, di animazione. Fu allora che nacque l’idea – poi divenuta realtà – di fargli realizzare la copertina del disco della mia band. Una cover ispirata a Il Pianeta Selvaggio (1973), uno dei miei film preferiti in assoluto. Un capolavoro.

La mia prima volta all’AFA (festival dell’autoproduzione, a Milano), fui suo ospite. Mi accolse a casa sua per tutta la durata dell’evento. Ero emozionatissimo. Quella notte mi lasciò disegnare nel suo studio con le sue brush pen: gli feci un ritratto in stile Freak Brothers. Ma il ricordo più prezioso di quel momento fu l’onore di vedere in anteprima Le mani di Z, un’opera che stava portando avanti da quasi dieci anni. Un lavoro profondo, intimo, specchio del suo vissuto, del suo immaginario e della sua poetica. Pochi possono dire di aver avuto questo privilegio. Mi parlò a cuore aperto del suo rapporto con le figure genitoriali: lo sentii profondamente vicino, come un fratello maggiore. Non dimenticherò mai l’ultima sera: cenammo con una pizza, in compagnia di Mozz (Officina Infernale), Zattera, Isa e ovviamente Gabriele.

Poi lo ospitai a Bari, dove ho vissuto per anni. Organizzammo una presentazione a Officina degli Esordi. Fu lì che scoprii un dettaglio singolare: Gabriele era solito scolarsi una moka intera di caffè quasi ogni giorno. Un’abitudine che, purtroppo (o per fortuna), ho finito col fare mia. Andava pazzo per la genovese – i napoletani capiranno – e, tornando a Milano, si portò via dei preparati fatti in casa, cucinati da mia madre.

Potrei continuare ancora, rifugiandomi nella nostalgia. Ricordando il Manuscripta, il Borda Fest di Lucca, il Comicon di Napoli e la sua costante, immancabile presenza allo Sputnik.

Akab non è stato solo un artista. È stato un agitatore culturale, con una visione precisa e radicale del mercato editoriale. Ha tracciato sentieri coraggiosi, mettendo in piedi metodi di pubblicazione alternativi, sempre dalla parte dell’autore e della libertà artistica, ma senza dimenticare la sostenibilità economica dei progetti. Sputnik è stato il suo apprendista stregone. Insieme abbiamo pubblicato Pop Guerriglia, Non un atomo di inferno entrerà nel mio paradiso e l’antologico di Progetto Stigma, Sing Sing in the Rain.

A lui dobbiamo tanto. Forse tutto.

A questa cometa nera del fumetto che ha illuminato la strada. E noi, come satelliti, non abbiamo potuto fare altro che seguirne la scia.

Trovate tutti gli articoli del Dossier AkaB qui.

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