Showcase: Wolverine 102, Tacite Promesse

Una storia muta a metà

Se si prende coraggio, e si decide di voler parlare di qualunque cosa, di fronte ad una platea più o meno nutrita, bisogna mettere subito in conto di essere come minimo un poco egocentrici, e che per quanto si possa pensare che forse la nostra opinione è strutturata in modo migliore rispetto a quella media (e che quindi merita di essere ascoltata), se la mettiamo in pubblica piazza, potremmo scoprire di aver avuto torto.

Vero è però che sebbene a noi lettori piaccia molto parlare delle nostre idee, quando si parla di qualcosa di bello, di molto bello, c'è sempre la tentazione di non dire troppo, e lasciare che sia l'opera a parlare per se stessa, in un senso quasi di sacrificio, un fare un passo indietro e fungere da megafono più che qualsiasi altra cosa. 

E tutte queste metafore sul suono sono per dire che oggi parleremo di una storia muta. O meglio, una storia muta a metà.

Wolverine numero 102, intitolato Tacite promesse, è un'avventura di uno dei mutanti targati Marvel più famosi di tutti i tempi disegnata da Adam Kubert, inchiostrata da Dan Green, colorata da Joe Rosas e letterata da Richard Starkings, il tutto su sceneggiatura di Larry Hama

Ora, per quanto io pensi che la gente che è qui in questo momento a leggere questo pezzo abbia una vaga idea di chi io sia, questo non è certamente detto, quindi sarò breve: per me Larry Hame è così importante, ed un autore che ho studiato così tanto, da poter scrivere un libro intero solo sulla sua vita, ma cercherò di contenermi con gli aneddoti. Vi ho mai detto della buffa mania che aveva Larry di portarsi sempre dietro un uzi? Ve lo giuro, sono stato così serio poche volte nella mia vita. 

Detto ciò, per dare un poco di contesto a chi non ha idea di cosa stiamo parlando, Wolverine (alias James Howlett alias Logan) è un mutante, ovverosia un uomo che ha ottenuto poteri straordinari tramite una mutazione genetica, grazie ai quali è riuscito a sopravvivere ad un terribile esperimento che ha fuso alle sue ossa l'indistruttibile metallo adamantio. 

Per anni, gran parte del fascino del personaggio erano state le sue origini misteriose, il fatto che citasse ogni tanto un evento particolare, che avesse avuto una vita piena di avventure folli di cui non sapevamo nulla, e ovviamente la questione che avere lo scheletro di metallo gli permettesse di poter sfoderare dalle nocche un paio di tre artigli affilatissimi in grado di tagliare qualunque cosa. 

Nel 1993, il terrorista mutante Magneto però deciderà di togliere questo vantaggio tattico al nostro eroe, rimuovendo il metallo dallo scheletro di Wolverine e rivelandoci che... sotto il metallo in realtà Logan aveva degli artigli ossei, che facevano già parte della sua mutazione.

Ignorando completamente tutti gli errori di continuity che questa rivelazione lasciò nei cuori e nelle menti dei lettori dell'epoca, e ricordandoci che il “buon senso” non batterà l'impossibilità del reparto marketing di togliere l'avere i coltelli nella mani ad un personaggio che era rinomato proprio per avere i coltelli nelle mani, passeranno gli anni e si arrivò al 1996, giungendo molto vicini al numero 100 della testata personale di Wolverine. 

Volendo rendere l'occasione il più monumentale possibile, si decise di provare a ridare al nostro eroe il suo scheletro di metallo attraverso le macchinazioni del criminale Genesis, che però porteranno ad un qualcosa di inaspettato, trasformando Logan in una versione di se stesso molto più ferale ed animalesca, quasi senza mente e guidata dal solo istinto. 

Larry Hama, che di base programmava quello che scriveva solo fino a fine della pagina sulla quale stava lavorando al momento, sapendo che il suo compagno di giochi Adam Kubert avrebbe lasciato la testata da lì a poco, deciderà di scrivere quindi la storia di Wolverine 102 in un modo molto particolare, ovverosia autocitandosi. 

Questo perché nei primi anni 80 Hama, appena tornato dal suo servizio come militare in Vietnam, aveva ottenuto l'incarico di lavorare al rilancio a fumetti di una linea di giocattoli, i soldatini G.I. Joe. Citiamo che l'aveva ottenuto perché l'editor Marvel dell'epoca, Jim Shooter, lo aveva chiesto prima a tutti gli altri scrittori in forza alla redazione, ed avevano tutti rifiutato. Fatto sta che Hama rese un fumettino fatto per vendere giocattoli una serie che divenne di culto in pochissimo tempo anche grazie al suo numero 21, Un interludio silenzioso.

In pratica, in questa storia il commando chiamato Snake-Eyes deve salvare la sua amata Scarlet dalla grinfie del malvagio ninja Storm-Shadow, in 22 pagine completamente mute, disegnate dallo stesso Hama.

Ecco, in principio, Wolverine 102 sarebbe dovuto essere proprio questo: una storia dove un animalesco Wolverine interagiva in completo silenzio con la vita di una ragazzo di periferia, messo di fronte ad una scelta. 

Mi rendo conto di aver fatto un'introduzione molto lunga, e ancora ho parecchie cose da dire, mi dispiace. 

Certo, Hama non è certo stato il primo fumettista della storia a creare un fumetto muto: molti autori hanno citato come ispirazione la prima pagina di Nick Fury di Jim Steranko del 1968 (peraltro citazione al film Rififi di Jules Dassin), per non parlare di Moebius ed il suo Arzach nel 1975 e probabilmente moltissimi altri che non conosco e che non vedo l'ora di scoprire, ma se parliamo di fumetto americano mainstream, poche cose avevano colpito il pubblico come quel G.I. Joe 21. 

Anche perché il fumetto muto sembra un qualcosa di naif, un qualcosa fatto di semplice estetica, ma le direzioni, la sceneggiatura, lo scheletro che fa sì che le tavole possano muoversi esiste. E se pensavate che non potesse essere tagliente, perché era uno scheletro senza adamantio vi sbagliate di grosso.

L'idea sembrava bella, Hama stava già alla macchina da scrivere, quando i suoi editor lo chiamarono e gli dissero “Senti, ma non ci puoi aggiungere due parole? Che muta muta forse la storia pare brutta” (Ovviamente parafraso, lo specifico che sai mai). 

Hama rimase parecchio perplesso da questa telefonata, e avendo visto la potenza delle tavole di Kubert, decise di prendere una strada ancora non percorsa, e di scrivere sì una storia per questo numero di Wolverine, ma una storia parallela, con protagonista un personaggio misterioso, i cui temi erano forse simili a quelli affrontati dal protagonista della testata sulla quale prendeva vita, ma diversi abbastanza da potersi muovere indipendentemente. 

Non si può biasimare Hama, le tavole di Kubert per questa storia sono davvero spettacolari, incarnano quel mix perfetto di iconico e moderno che pochi autori sono stati in grado di portare sulla pagina con la stessa efficacia. 

Negli anni, lo stile di Adam si è evoluto parecchio, ma si è sempre ispirato alle linee pulite e dettagliate del padre, sulle quali ha costruito una grandissima abilità nella gestione della tavola e nella narrazione per immagini. Kubert dà poi veramente il suo meglio nei dettagli, nelle espressioni. Nei momenti dove un ragazzo abbraccia sua madre, nei momenti dove Wolverine salta con la bava alla bocca verso i suoi nemici, ogni piega nei vestiti, ogni pelo fuori posto non sembra mai troppo, sembra sempre parte integrante della storia: se è lì, è perchè lì doveva esserci.

Trovo sempre sorprendente la versatilità di Adam, che gli permette di passare con una rara naturalezza da un registro all'altro, ed è facilissimo sfogliare questo fumetto e perdersi fra le sue illustrazioni senza mai neanche accorgersi che ci sono delle didascalie. 

Didascalie che però mi sono rimaste nel cuore per sempre. Sarà per forma mentis, sarà perché toccano delle corde (di pianoforte) che stringono la mia anima da quando avevo 13 anni e per la prima volta mi sono reso conto che forse non esistevo solo io sulla faccia della Terra, ma quella storia parallela, senza pretese, scritta per riempire un buco, e forse un pelo paternalista, è un qualcosa su cui ritorno spesso, ancora oggi. E io trovo Wolverine uno dei personaggi più noiosi sul pianeta Terra.

Eppure questa storia, questo momento di follia anni 90, che però cristallizza così bene tutta una serie di regole della narrativa, e dopo qualche minuto le rompe con una mazza da baseball, mi ha rapito il cuore. 

Perché, di nuovo, il fumetto muto è davvero un'arte che solo pochi sanno gestire al meglio, è un delicato equilibrio fra il design e il racconto, fra la scelta stilistica fatta solo per mettere sul tavolo il fatto di essere in grado di farla, e la genuina voglia di suscitare emozioni senza filtri alcuni, mediate solo dalla nostra sensibilità. 

E quindi questa aggiunta delle didascalie, della storia parallela, questo contentino dato agli editor che sottovalutano il pubblico, è un passo indietro a livello di pura composizione, ma, davvero, e qui sono io ad essere senza parole... invece funziona. 

Funziona perché la giustapposizione di testo e vignette è sbagliata al punto giusto da essere interessante, funziona perché lo stacco fra i due medium si fa sempre più largo e straniante, mettendoci in empatia con i due protagonisti della storia, perduti nei loro cambiamenti. Funziona perché tutti i livelli sono gestiti da artisti di grande livello, insomma, è qualcun altro che parla per il per il fumetto, ma lo fa così bene che alla fine è fumetto che parla per se stesso. 

Otre la scelta stilistica, oltre l'imposizione editoriale, Tacite Promesse è uno degli albi singoli americani più interessanti, e meglio riusciti di sicuro degli ultimi 30 anni di fumetto mainstream americano.

Mi azzarderei a dire “di sempre”, ma ne capisco le complessità intrinseche che lo rendono meno “senza tempo” di altri albi singoli che hanno fatto la storia, albi che magari non ho ancora letto, e magari mai leggerò. 

Se il prezzo da pagare per essere così rapiti da un qualcosa di così puro nella sua semplice potenza, è il dover perdere un po' del mio tempo per capirne le varie sfumature, e fare forse un passo indietro nelle mie convinzioni e pensare che forse non so tutto, e che ho sempre dello spazio di manovra per migliorare, è un prezzo che pago volentieri. A chi, è un qualcosa che vi lascerò scoprire da soli, dopo aver finito di leggere quest'albo.

Giovanni Campodonico


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