Speciale Dylan Dog #31 - Nemico Pubblico n.1
L'incubo senza fine
Biliotta, come tiene a precisare il curatore della testata Roberto Recchioni nella breve nota introduttiva all'albo, è l'unico "abilitato" a narrare le vicissitudini dell'Indagatore dell'incubo ambientate in questo mondo futuro. E lo fa con storie sempre più appassionanti, che riprendono alcune tematiche chiave dell'opera sclaviana in felici reinterpretazioni.
[Potrebbe contenere qualche spoiler.]
L’Indagatore dell’incubo non compare per tutta la prima metà dell’albo. L'autore romano gestisce questa assenza in maniera egregia, lasciando che ad affascinarci sia la sua nemesi, ora più che mai altra faccia della stessa medaglia. Indubbiamente traspare dalle pagine una certa empatia verso Xabaras, derivante sia dalla sua condizione di anziano minato dagli acciacchi dell’età (nel fisico ma non nello spirito) che dalla sua rinnovata ricerca di qualcosa che abbia un senso, dell’eternità, di congelare l’attimo e mantenerlo per sempre.
È lui a rivelarsi, in definitiva, nel profondo, il vero zombi, il morto vivente. Non ha nessuno e gli unici che si preoccupano di lui sono quelli che vogliono neutralizzarlo; è lento, malandato, claudicante e alieno dal mondo anche a causa delle sue dipendenze da gioco, farmaci, autolesionismo e junk food. Sembra quasi che, a posteriori, egli abbia voluto rendere il mondo simile a come sapeva che sarebbe stato lui da vecchio.
"Abbiamo ereditato uno strano mondo... Diviso tra chi si narcotizza per arrivare a fine giornata e chi si uccide nel tentativo di vivere per sempre!"Ogni volta c'è da centellinare. Perché, come gocce preziose, le pagine dello Speciale Dylan Dog sul Pianeta dei Morti architettate da Alessandro Bilotta sono di rara bellezza e a modo loro terapeutiche.
Biliotta, come tiene a precisare il curatore della testata Roberto Recchioni nella breve nota introduttiva all'albo, è l'unico "abilitato" a narrare le vicissitudini dell'Indagatore dell'incubo ambientate in questo mondo futuro. E lo fa con storie sempre più appassionanti, che riprendono alcune tematiche chiave dell'opera sclaviana in felici reinterpretazioni.
[Potrebbe contenere qualche spoiler.]
"Gli esseri viventi si fanno tragici quando non accettano le inevitabili conseguenze della condizione umana. Due uomini si perseguitano da una vita, ossessionati da modi diversi di respingere la morte. Uno di loro è Dylan Dog, l’altro ha un nome che nessuno vuole pronunciare."
Con queste parole lo sceneggiatore di Mercurio Loi ha presentato la storia e le sue tematiche, suggerendo la presenza di un personaggio “innominabile”. Per buona parte dell’episodio infatti Bilotta riserva il palcoscenico a uno dei character più affascinanti e difficili da “maneggiare” dell’intera cosmogonia dylaniata, una vecchia conoscenza che sin dal suo esordio, in Dylan Dog #1, ha legato il suo nome agli zombie di romeriana memoria: Xabaras.
Comprimario di molte tra le storie più importanti dell’inquilino di Craven Road («Chissà quante ne hai passate con questo Xabaras e quante ne hai da raccontare…» chiede un’ingenuamente comunicativa sergente Jenkins, «Neanche poi tante» risponde Dylan con un mezzo sorriso), con il suo siero dell'immortalità è alla ricerca da sempre di un modo per far sì che i Ritornanti mantengano inalterate le proprie funzioni cognitive, ottenendo di fatto l’accesso alla vita eterna. La storia ne riprende la figura, nel contesto dell’epidemia di Ritornanti di questo futuro distopico, partendo da alcuni suoi problemi di salute e rendendo tutto ciò che lo circonda “terribilmente realistico” ma anche drammatico, soffocante, claustrofobico.
In questa storia Bilotta appare (se possibile) ancor più efficace e impeccabile del solito nella scrittura dei dialoghi, nel ritmo, nel dosare le frasi profonde e inserirle in un contesto mai banale. L’Indagatore dell’incubo non compare per tutta la prima metà dell’albo. L'autore romano gestisce questa assenza in maniera egregia, lasciando che ad affascinarci sia la sua nemesi, ora più che mai altra faccia della stessa medaglia. Indubbiamente traspare dalle pagine una certa empatia verso Xabaras, derivante sia dalla sua condizione di anziano minato dagli acciacchi dell’età (nel fisico ma non nello spirito) che dalla sua rinnovata ricerca di qualcosa che abbia un senso, dell’eternità, di congelare l’attimo e mantenerlo per sempre.
E proprio a tutto Dylan sembra resistere tranne che alla provocazione di Xabaras quando questi cita indirettamente Groucho («Il tuo amico, per esempio…», «Tu non devi parlare di lui!»): evidentemente gli anni passano, ma il dolore per la perdita dell’amico e i sensi di colpa per non aver fermato la diffusione del contagio sono più forti che mai.
Dalla sua abitazione in un vecchio cimitero («sono il custode dei morti» dice a un certo punto), Dylan – tra un incubo e l’altro – si sveglia, si alza e spara ai Ritornanti, proprio come faceva Rupert Everett in Dellamorte Dellamore.
Dylan è stato in cura e afferma più volte di stare meglio, ma sappiamo che non è così: continua a essere attanagliato da incubi terribili e ricorrenti che non sono altro che i fotogrammi finali di un albo fondamentale: Caccia alle streghe (Dylan Dog #69, rievocato recentemente in un remake del Color Fest estivo). E i riferimenti a quella che, insieme a Morgana, è la storia più metaletteraria di tutta la stagione d’oro sclaviana (con il suo straordinario finale aperto) non sono casuali in un vicenda del genere: Bilotta vuol davvero suggerirci che la saga da lui concepita si candida a rappresentare un possibile sequel del numero 69 e che gli incubi dylaniati siano non orrori onirici ma frammenti analettici, visioni in un cervello provato e desideroso di sognare l’ultimo incubo? Sarebbe più che affascinante. Ma non ci è dato saperlo.
Quel che è certo è che lo scrittore romano, sul modello di Sclavi, ha deciso di capovolgere i punti saldi della filosofia e del pensiero occidentali e teorizza, per mezzo di Xabaras, quello che ha il valore di atto fondativo di una nuova dottrina della disperazione ultima:
Dylan è stato in cura e afferma più volte di stare meglio, ma sappiamo che non è così: continua a essere attanagliato da incubi terribili e ricorrenti che non sono altro che i fotogrammi finali di un albo fondamentale: Caccia alle streghe (Dylan Dog #69, rievocato recentemente in un remake del Color Fest estivo). E i riferimenti a quella che, insieme a Morgana, è la storia più metaletteraria di tutta la stagione d’oro sclaviana (con il suo straordinario finale aperto) non sono casuali in un vicenda del genere: Bilotta vuol davvero suggerirci che la saga da lui concepita si candida a rappresentare un possibile sequel del numero 69 e che gli incubi dylaniati siano non orrori onirici ma frammenti analettici, visioni in un cervello provato e desideroso di sognare l’ultimo incubo? Sarebbe più che affascinante. Ma non ci è dato saperlo.
Quel che è certo è che lo scrittore romano, sul modello di Sclavi, ha deciso di capovolgere i punti saldi della filosofia e del pensiero occidentali e teorizza, per mezzo di Xabaras, quello che ha il valore di atto fondativo di una nuova dottrina della disperazione ultima:
«Ti sei mai chiesto perché nella vita abbiamo la sensazione che il tempo passi sempre più in fretta? Non è una sensazione… è la verità! Percepiamo il tempo rispetto a quello con cui possiamo paragonarlo. Quando hai quattro settimane di vita, una settimana è un quarto della tua esistenza… se hai dodici mesi, una settimana diventa un cinquantesimo della tua vita. Più viviamo, più un anno diventa piccolo… e quindi breve. Dopo i trenta, ogni anno costituisce meno del tre per cento della nostra vita. […] Sei sempre stato consapevole dell’orrore della vita… e lo hai accettato! Io no… io mai! […] Non voglio morire… non posso morire!»Xabaras si attaccherebbe, e si attacca, a tutto - a una triste illusione d’amore, a una nuova vana ricerca scientifica, a un ennesimo inconcludente confronto con il figlio - pur di sentirsi ancora vivo, pur di provare ancora a rinviare la sensazione sul collo del freddo alito della Morte.
È lui a rivelarsi, in definitiva, nel profondo, il vero zombi, il morto vivente. Non ha nessuno e gli unici che si preoccupano di lui sono quelli che vogliono neutralizzarlo; è lento, malandato, claudicante e alieno dal mondo anche a causa delle sue dipendenze da gioco, farmaci, autolesionismo e junk food. Sembra quasi che, a posteriori, egli abbia voluto rendere il mondo simile a come sapeva che sarebbe stato lui da vecchio.
E, lo confessiamo, fa troppo male rivedere Philip Seymour Hoffman, nei panni dell’Ispettore Osmond, sdraiato a terra, in piena trance, con l’ago ancora infilato nel braccio… Le sequenze che vedono Osmond e Dylan all’interno del Red Lion Pub non possono non farci rivivere le stesse immagini che abbiamo visto tante volte in episodi classici con Dylan e Bloch («ci capitavo di tanto in tanto… con un vecchio amico», afferma Dylan) : anche le ordinazioni sono le stesse, tè e una pinta di birra.
Inoltre, non vorremmo spingerci troppo oltre rispetto alle intenzioni degli autori ma riteniamo di avere buoni motivi nel credere di aver individuato – nel cuore della storia – una sequenza in cui Bilotta e Gerasi mettono in scena una loro vecchia conoscenza: Valter Buio, o meglio la sua versione zombesca. Vediamo una figura con lo stesso vestiario (camicia e giacca), le medesime fattezze e, soprattutto, con gli stessi identici capelli. Sembra trasparire così l’esigenza degli autori di “uccidere” ciò che avevano creato in precedenza (e che ha contributo a portarli dove sono ora) per poter continuare a dar vita a qualcosa di nuovo (vedi Mercurio Loi e questa saga). E anche il sergente Jenkins ci ricorda molto da vicino la segretaria di Valter, la bionda, bellissima, innamorata (e non ricambiata fino in fondo) Cecilia.
Che dire dei disegni? Accanto a Bilotta, Sergio Gerasi va a riformare quella che è attualmente una delle coppie di fumettisti italiani più in forma in questo momento storico, già apprezzata solo poche settimane fa sul quarto, splendido episodio di Mercurio Loi (da noi recensito qui). La sua inchiostrazione nervosa è perfetta per descrivere una storia di vite affette dalla caducità degli eventi, esistenze provvisorie, tenute insieme da un filo, perennemente sull'orlo di una nuova e definitiva tragedia. Quando Gerasi cambia ancora stile e inverte il contrasto (poco bianco su sfondo nero), con un tratto più sporco e denso, si raggiunge davvero il sublime. Quelle sequenze – poche, ma è giusto così! – sono drammaticamente significative e segnano i punti fondamentali della storia: il passaggio in cui Xabaras va a recuperare il corpo di Marlene e tenta di ridarle la vita; la pagina singola con sei vignette in cui Dylan, Xabaras, l’ispettore Osmond e il sergente Jenkins affrontano i loro demoni; la sequenza in cui, prima dello scontro finale, Xabaras annuncia a Dylan di aver trovato un nuovo siero; il momento in cui Xabaras stringe le mani intorno alla gola di qualcuno a lui molto familiare.
Non può poi sfuggire all'occhio più sensibile e allenato all'esoterismo la presenza, inquietante e insieme affascinante, del recto e del verso del talismano di epoca ellenistica raffigurante il demone Abraxas e la scritta "Iao Abrasax Sabaoth". Bilotta ha chiesto a Gerasi di riprodurre fedelmente questo oggetto di culto e la cura nel dettaglio è un ulteriore riprova della serietà e della passione con le quali questi due autori si dedicano al loro lavoro.
L'idea che emerge dalla lettura è che, oltre a portare avanti una saga sostanzialmente autonoma rispetto al resto della produzione dylaniata, Bilotta stia al contempo letteralmente riscrivendo i classici di Dylan Dog.
Se il numero dello scorso anno conteneva una riproposizione e un omaggio evidente a L'alba dei morti viventi, anche in occasione del trentennale del personaggio, questo nuovo episodio contiene in più punti evidenti richiami a Storia di nessuno (su tutte, la scena della caverna con il galeone). Inoltre, come già accennato, gli incubi di Dylan ricordano innegabilmente il finale di Caccia alle streghe. Va annotato come alcune affermazioni di Xabaras nel finale aprano le porte a interpretazioni molto interessanti e metatestuali: quando il “nemico pubblico numero 1” ipotizza che tutto quanto sia solo un sogno e che Dylan Dog sia morto anni prima, “divorato vivo dagli Inquisitori”, in realtà è come se parlasse delle conseguenze delle azioni scriteriate degli “Inquisitori”, ovvero i censori, sui fumetti horror, considerati troppo violenti e diseducativi. Perché eliminare completamente la componente violenta, cruda e splatter da Dylan Dog è un po' come - estremizzando - sancirne la morte (sappiamo bene che tantissime storie dell'Indagatore dell'incubo hanno ben altre armi rispetto alle teste sgozzate e agli schizzi di sangue, ma il discorso qui verte sulla libertà espressiva dunque sulla possibilità, anche potenziale, di mettere in scena lo splatter).
E poi impossibile non fare cenno a quel finale (sul quale però non ci dilungheremo per chi ancora non ha letto l'albo). Dopo ben trentun anni di vita editoriale possiamo ancora fregiarci di un epilogo memorabile in cui il Fato segue il suo corso e gli eventi vanno come devono andare: il Mito viene rispettato, Sigmund Freud aggirato.
Non può poi sfuggire all'occhio più sensibile e allenato all'esoterismo la presenza, inquietante e insieme affascinante, del recto e del verso del talismano di epoca ellenistica raffigurante il demone Abraxas e la scritta "Iao Abrasax Sabaoth". Bilotta ha chiesto a Gerasi di riprodurre fedelmente questo oggetto di culto e la cura nel dettaglio è un ulteriore riprova della serietà e della passione con le quali questi due autori si dedicano al loro lavoro.
L'idea che emerge dalla lettura è che, oltre a portare avanti una saga sostanzialmente autonoma rispetto al resto della produzione dylaniata, Bilotta stia al contempo letteralmente riscrivendo i classici di Dylan Dog.
Se il numero dello scorso anno conteneva una riproposizione e un omaggio evidente a L'alba dei morti viventi, anche in occasione del trentennale del personaggio, questo nuovo episodio contiene in più punti evidenti richiami a Storia di nessuno (su tutte, la scena della caverna con il galeone). Inoltre, come già accennato, gli incubi di Dylan ricordano innegabilmente il finale di Caccia alle streghe. Va annotato come alcune affermazioni di Xabaras nel finale aprano le porte a interpretazioni molto interessanti e metatestuali: quando il “nemico pubblico numero 1” ipotizza che tutto quanto sia solo un sogno e che Dylan Dog sia morto anni prima, “divorato vivo dagli Inquisitori”, in realtà è come se parlasse delle conseguenze delle azioni scriteriate degli “Inquisitori”, ovvero i censori, sui fumetti horror, considerati troppo violenti e diseducativi. Perché eliminare completamente la componente violenta, cruda e splatter da Dylan Dog è un po' come - estremizzando - sancirne la morte (sappiamo bene che tantissime storie dell'Indagatore dell'incubo hanno ben altre armi rispetto alle teste sgozzate e agli schizzi di sangue, ma il discorso qui verte sulla libertà espressiva dunque sulla possibilità, anche potenziale, di mettere in scena lo splatter).
E poi impossibile non fare cenno a quel finale (sul quale però non ci dilungheremo per chi ancora non ha letto l'albo). Dopo ben trentun anni di vita editoriale possiamo ancora fregiarci di un epilogo memorabile in cui il Fato segue il suo corso e gli eventi vanno come devono andare: il Mito viene rispettato, Sigmund Freud aggirato.
Insomma, una riscrittura in chiave tragica ed esistenzialista dei capisaldi dylaniati in storie che delineano un contesto narrativo affascinante e particolarmente fertile che difficilmente potrà essere ripetuto o tenuto in vita (o eguagliato) in alcun modo.
Un capolavoro contemporaneo imperdibile.
Giuseppe Lamola & Rolando Veloci
NUMERO: 31
DATA: settembre 2017
DATA: settembre 2017
SERGIO
BONELLI EDITORE
SOGGETTO E
SCENEGGIATURA: Alessandro Bilotta
DISEGNI E
CHINE: Sergio Gerasi
COPERTINA: Marco
Mastrazzo
Per le immagini: © 2017 Sergio Bonelli Editore.