ARF! Festival 2025 - “I said I was a pacifist, not an idiot”: intervista a Bryan Talbot

Dialogo con l'artista britannico creatore della saga di Luther Arkwright, il cui ultimo capitolo è stato pubblicato nel 2025 da Tunué

La leggenda di Luther Arkwright chiude il trittico di avventure dedicato al personaggio storico di Bryan Talbot, iniziato a fine anni '70 con Le avventure di Luther Arkwright e proseguito vent'anni dopo con Cuore dell'Impero. La casa editrice Tunué propone l'opera con un'introduzione dello scrittore Adrian Tchaikovsky e un'interessante nota finale dei due traduttori italiani, Fabio Gadducci e Mirko Tavosanis.

In occasione dell'ARF! Festival 2025, abbiamo avuto l'occasione di parlare dal vivo con Bryan Talbot sui temi e i personaggi che caratterizzano l'opera.

Ciao Bryan, piacere di conoscerti. Mi chiamo Mattia e scrivo per Gli Audaci. È un onore poter parlare con te de La leggenda di Luther Arkwright. Sono passati circa cinquant’anni dalla prima apparizione di Luther Arkwright, e più di venti da Cuore dell’impero, il secondo capitolo della saga. Poi, nel 2022, hai riportato in scena il tuo eroe dai capelli bianchi. Cosa ti ha spinto a tornare su questo personaggio dopo tanto tempo? E a chi si rivolge questa nuova avventura?

Quando ho cominciato Le avventure di Luther Arkwright, negli anni Settanta, avevo già in mente di fare un graphic novel. Ci stavo lavorando. L’idea è stata anche molto influenzata dalla crescita dell’estrema destra nella Gran Bretagna di quegli anni. Il governo Thatcher salì al potere circa un anno dopo, e c’era questo gruppo politico chiamato National Front, un partito dichiaratamente razzista, che marciava per strada e si mostrava senza vergogna. In parte, cercavo di reagire a tutto questo. Avevo paura dei pericoli dell’ideologia di destra, suppongo. Curiosamente, due o tre anni dopo uscì anche V per Vendetta di Alan Moore, nato dallo stesso clima.

Cuore dell’impero era diverso. Volevo fare qualcosa di differente. Era a colori, aveva una struttura più lineare, meno sperimentale… ma di base era una storia anti-imperialista.

Con il nuovo capitolo, invece, sono tornato alle origini. È uno dei motivi per cui ho ripreso il bianco e nero con tratteggio incrociato, proprio come all’inizio. E per farlo ci vuole una vita! (ride, n.d.r.) Ci vuole un sacco di tempo, davvero.

Come saprai, in questo momento l’estrema destra sta tornando un po' ovunque. È al potere negli Stati Uniti, sta crescendo nel Regno Unito… si sta diffondendo dappertutto. E... beh, sappiamo tutti com’è andata l’ultima volta. Sono cresciuto all’ombra della Seconda Guerra Mondiale. Sono nato poco dopo e ho vissuto le conseguenze di ciò che un’ideologia fascista può portare. Quindi credo che si capisca il perché son voluto tornare alle origini.

Per quanto riguarda il mio lettore ideale, scrivo da sempre per chi ama leggere una bella storia a fumetti. Voglio dire, è sempre questa la mia motivazione principale: scrivere qualcosa che sia piacevole da leggere, interessante, con colpi di scena, insomma, una storia che appassioni. 

Mi rivolgo a un pubblico adulto, dagli adolescenti in su, come è sempre stato. Non ho mai scritto fumetti per bambini. Ho iniziato nella scena underground inglese, con fumetti per un pubblico adulto, e ho sempre fatto fumetti per adulti.

Luther si definisce un pacifista, e in questo è un eroe profondamente “british”. Personalmente, mi ricorda un po’ Doctor Who. Eppure, come già accadeva in passato, è spesso costretto a ricorrere alla violenza per raggiungere i suoi obiettivi. Come affronti questa contraddizione nel personaggio? Pensi che la violenza, in certe situazioni, sia inevitabile?

Sì, a un certo punto della storia lui dice: “Ho detto di essere un pacifista, non un idiota.” Usa la violenza per difendersi, insomma… tutti gli eroi classici usano la violenza, tutti gli eroi d’avventura lo fanno. Fa parte del genere, è nella sua natura.

Credo che in realtà Luther sia più vicino a Robin Hood. Sin da piccolo, per me Robin Hood è stato sempre una figura pura, onesta, che faceva la cosa giusta.

E la violenza… Beh, alla fine le storie d’avventura devono essere emozionanti, no? Senza violenza non c’è emozione. E senza conflitto non c’è dramma.

Nel libro fa la sua comparsa un nuovo, potente antagonista: Proteus, un homo eximius, evoluzione della specie umana, superiore persino agli homo novus di cui Luther fa parte. Disprezza l’umanità e sembra avere motivazioni persino condivisibili. Cosa rappresenta, simbolicamente, nel contesto della storia?

Proteus rappresenta uno sguardo esterno sull’umanità. È come se un alieno arrivasse su questo pianeta e osservasse cosa facciamo. Cosa direbbe di noi?

Perché, sai, non tutti, certo, ma molti umani stanno avvelenando il pianeta per un guadagno immediato. E lo stanno distruggendo per se stessi, per i loro figli… insomma, ci stiamo autodistruggendo. E come dice lui (o lei), combattiamo guerre per piccoli appezzamenti di terra: un comportamento tribale, primitivo. Dovremmo renderci conto che viviamo tutti sullo stesso pianeta e che dobbiamo collaborare per sopravvivere.

Oltre a Luther, un ritorno importante è quello di Harry Fairfax: personaggio grottesco, spesso comico, e perfetto contrappeso all’austerità e al sarcasmo di Luther.

Sì, Harry è l’archetipo del compagno dell’eroe. Sai, tutti i grandi eroi hanno un’arma, tipo Excalibur, cavalcano qualcosa, magari un drago, o un cavallo… e hanno un compagno. A volte anche una fidanzata. Fa parte del pacchetto, diciamo.

Cos’è che lo rende speciale, secondo te?

È molto concreto, terra terra. Serve un po’ a ridimensionare il lato “pretenzioso” di Arkwright. È un personaggio schietto, e si basa sulla gente del nord dell’Inghilterra, da dove vengo io. Sono cresciuto con persone che parlavano proprio come lui.

Oltre alle vecchie conoscenze, in questa nuova avventura vediamo emergere un nuovo personaggio, Amy, che richiama in parte il ruolo delle molteplici versioni di Rose. Quali sono, secondo te, le principali differenze tra le due?

Amy è molto più potente di quanto non fosse Rose. E Rose, a sua volta, cambiava leggermente carattere a seconda dell’universo parallelo in cui si trovava. Vale anche per Amy. Perché sono tutte ‒ come ognuno di noi ‒ il prodotto dell’ambiente in cui crescono. Una delle tematiche del libro è proprio il condizionamento, come l’ambiente influenzi il nostro modo di pensare.

A un certo punto della storia, Luther e Harry si ritrovano in un universo parallelo distopico, quasi orwelliano: una società oppressa, in miseria, schiacciata dal potere delle multinazionali. Quanto c’è di reale in quel mondo rispetto all’Inghilterra e all’Europa contemporanea?

Ho scritto la sceneggiatura qualche anno fa, prima della Brexit. Era un po’ la mia previsione su come sarebbe andata se fossimo usciti dall’Unione Europea, se fossimo finiti sotto l’influenza americana. Via gli standard alimentari, via i diritti umani… i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Come si vede, lì c’è molta povertà. E anche molta… inquietudine.

Ne abbiamo accennato prima, ma mi piacerebbe ritornare sull’argomento. Le avventure di Luther Arkwright era narrativamente complesso, ricchissimo di informazioni, articoli fittizi, flussi di coscienza, coordinate spazio-temporali tra le vignette… quasi una sfida per il lettore, un puzzle da risolvere. Ne La leggenda, invece, la struttura è più lineare e accessibile. Perché questo cambio di stile narrativo? 

Be’, quell’esperimento l’avevo già fatto col primo Arkwright, ci ho lavorato per anni, ci ho pensato a lungo. E con ogni nuovo capitolo cerco di non ripetermi.

Anche ne La leggenda ho provato a introdurre qualche elemento sperimentale. Per esempio, c’è una pagina in cui Luther è disorientato, atterra nella neve, e ho usato vignette sovrapposte per trasmettere quella confusione, prima che riprendesse coscienza. Inoltre, ci sono alcune sequenze dove i personaggi parlano direttamente al lettore, una cosa insolita per una storia d’avventura. E poi ci sono riflessioni filosofiche, sul bene, sul male… insomma, un po’ di etica c’è sempre.

Anche dal punto di vista visivo, sono tornato allo stile originale, ma con meno intensità. La realtà è che ci vuole troppo tempo. C’è una pagina nelle prime avventure di Arkwright che mi ha preso tre giorni pieni solo per inchiostrarla. Tre giorni interi, dalla mattina alla sera, per costruire strato dopo strato di tratteggio incrociato. Non volevo farlo di nuovo. Ma comunque, anche stavolta, ci ho messo un sacco.

Come ultima domanda vorrei chiederti: quali sono i quattro fumetti che ti hanno influenzato maggiormente e che ti hanno cambiato la vita?

Quando ero piccolo, avevo circa quattro o cinque, forse sei anni, mio padre mi comprò un annual di Rupert the Bear, scritto e disegnato da Alfred E. Bestall. Mi innamorai subito di quelle storie. Erano ambientate nella campagna inglese. L’orso era l’eroe, e io mi identificavo in lui. Viveva delle avventure davvero affascinanti per un bambino. Con splendidi acquerelli, un po’ come Tintin, su sfondi naturalistici. Tutto era... tutti i colori erano meravigliosi, risaltavano contro il tratto pulito del disegno. E penso sia per questo che faccio fumetti, che ho voluto fare fumetti: grazie a Rupert the Bear. Mi sono innamorato dei fumetti grazie a quel personaggio.

Il secondo è arrivato quando avevo circa undici o dodici anni. Avevo smesso di leggere fumetti. Pensavo: “Ne ho letti un sacco e ormai sono troppo grande per queste cose.” All’epoca erano considerati roba da bambini. Poi comprai una copia di Creepy Magazine, una pubblicazione della Warren. Era il numero 10. Iniziai a leggerlo e dentro c’era una storia intitolata Collector’s Edition, scritta da Archie Goodwin e disegnata da Steve Ditko. E mi rimase letteralmente impressa nella mente. Non avevo mai visto nulla di simile. Era diversa... Era l’unica volta in cui avevo visto Ditko usare uno stile con tratteggio incrociato. Ma soprattutto, la narrazione era brillante, davvero sperimentale. Non sto qui a raccontarla tutta, anzi se avete la possibilità, vi consiglio di leggerla. Vedrete Goodwin giocare con la storia, con il tempo... e Ditko organizzare la tavola in maniera davvero sperimentale. All’epoca, quando arrivai all’ultima pagina, rimasi a bocca aperta. Pensai: “Wow, questo è quello che i fumetti possono fare.” È stato il momento in cui ho ricominciato a interessarmi ai fumetti. Mi ha riportato dentro a quel mondo.

Il terzo... è successo più o meno nello stesso periodo, quando andai a trovare mio cugino. Non si trattava di un singolo fumetto, ma di una pila. E li lessi tutti. Erano fumetti Marvel ed era la prima volta che ne vedevo. Ne lessi a decine. Mio cugino giocava con i suoi amici all’aperto, e io rimasi in casa tutto il giorno a leggere quella immensa collezione Marvel fino a tardi.

Nel 1976 ero ormai completamente dentro il mondo dei fumetti, e andai in un negozio di fumetti a Lawton dove scoprii il primo numero della rivista francese Métal Hurlant. Lì trovai Moebius, Druillet… E ancora una volta, la mia mente fu sconvolta. Pensai: “Wow, questi sì che sono grandi fumetti per adulti.” Ecco, quello era ciò che volevo fare anch’io.

Grazie mille, Bryan. È stato un piacere intervistarti. Ti auguro una buona permanenza a Roma.

Grazie a voi, alla prossima.

Intervista realizzata da Mattia Mirarco

Traduzione e sbobinatura di Mattia Mirarco


Bryan Talbot 

Classe 1952, Bryan Talbot è un fumettista nato in Lancashire, Gran Bretagna. Inizia la sua carriera a fine anni '60 nell'ambiente underground inglese, sulla rivista British Tolkien Society. Nel 1978 inizia la serializzazione de Le avventure di Luther Arkwright, opera che viene da molti considerata come la prima graphic novel britannica. Nel 1996 conquista l'Eisner Award con La storia del topo cattivo, e nel 2024 viene inserito nella Will Eisner Hall of Fame. Tra le sue opere, ricordiamo Cuore dell'Impero, La leggenda di Luther Arkwright, Grandville, Alice in Sunderland, Dotter of Her Father's Eyes (scritta da Mary. M. Talbot) e le sue incursioni nel mondo dei comics americani, tra cui Hellblazer, Batman, The Sandman e Judge Dredd.

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