Dossier AkaB: AkaB e le nostre prigioni
Nella comodità delle nostre prigioni, AkaB vuole ricordarci che siamo in un carcere e che da quelle sbarre dobbiamo partire per capire chi siamo. La prigionia come strumento di consapevolezza è nell’opera di AkaB tema fondante da cui poi si diramano tutte le sue riflessioni sul mondo e su di sé. Si tratta di un tema totalizzante proprio perché non coinvolge soltanto i lavori più strettamente legati a esso, ma si estende sino a toccare storie insospettabili e si astrae così tanto da diventare meccanismo narrativo ricorrente.
La storia di un personaggio chiuso in un luogo angusto che lo obbliga a porsi domande su sé stesso è infatti un motivo ricorrente. Dal pozzo di Dylan Dog a quello di Alfredino Rampi, dal laboratorio di Human kit al giardino-recinto di Eden 1.0, il modo più semplice per AkaB di iniziare la storia è quella di trovare una vittima designata da rinchiudere da qualche parte e immaginare le sue reazioni a quella reclusione. È sicuramente il gioco di un dio sadico quello di AkaB, ma la sua prospettiva non si limita mai alla semplice osservazione: così come in Monarch AkaB osserva e si osserva. Questa oscillazione tra due punti di vista agli antipodi permette all’autore di essere al contempo carnefice e vittima, trovando un tono nel racconto capace di crudeltà e spietatezza ma anche dolcezza e persino amore. È una sensazione strana da descrivere quella di trovarsi al contempo con una corazza e con le carni esposte, è come passare da una visione in prima persona a una in terza, guardarsi dall’interno e poi dall’esterno. La vittima è il carnefice, il paziente è il medico, il figlio è il padre, l’uomo è dio. E viceversa.
Da qui si innervano tutte le tematiche ricorrenti di AkaB. Dal rapporto con la famiglia alla cultura nazional popolare, dai complottismi del Signor Dukakis ai tormenti della carne, dall’invenzione di dio all’attesa della fine del mondo, tutto è prigione.
Anche nei suoi disegni AkaB costringe il nostro sguardo a un mondo senza orizzonti. I suoi appartamenti sono privi di finestre come bunker, sono tane, sono il grembo materno. Sono lo spazio sicuro e il rifugio, ma anche il cordone ombelicale che ci si annoda alla gola mentre ci nutre e ci prepara alla nascita. Anche gli spazi aperti sono costrittivi: le case chiudono le vie, gli alberi sono sbarre che ci costringono nel bosco, i giardini sono recinti e persino il cielo aperto di Pop! Vite ascensionali è delimitato dallo spazio della vignetta. AkaB vieta al nostro sguardo la possibilità di vagare e al nostro cervello quella di immaginare un qualche tipo di futuro (anche la memoria è un carcere-labirinto, come raccontato in Defragment). Nel presente devastato dall’attesa di un’apocalisse, veniamo rinchiusi e ci chiudiamo in tante piccole gabbie per sopravvivere.
Pur avendo praticato cinema, grafica, scrittura e pittura, forse non è un caso che AkaB torni sempre al fumetto, l’unico medium il cui storytelling si basa su una gabbia ma anche sullo spazio bianco. La costrizione di un modulo che obbliga il lettore a un percorso stabilito, e la libertà vertiginosa di uno spazio vuoto in cui farlo perdere. È il fumetto stesso la gabbia che ci mostra la libertà, perché ci dà sicurezza con lo spazio regolare delle vignette, ma ci abbandona in uno spazio bianco in cui è possibile inabissarsi in sé stessi.
“Per me, invece, il fumetto ha questa cosa dello spazio bianco, tra una vignetta e l’altra ci sei tu, è uno stranissimo ibrido. La letteratura può essere molto evocativa, può fare in modo che l’immaginazione viaggi, però il fumetto ti accompagna e poi ti abbandona e in quell’abbandono lì, che è quello spazio bianco, ci sei tu.”
[da un’intervista di AkaB per CrunchEd]