Come un cane: il teatrino delle ombre di Danijel Žeželj

La solitudine dell’uomo permea dalla china, un nero che riempie la pagina e il cuore di chi legge

Il post-apocalittico è forse il genere più contemporaneo che esista, non solo per via delle nere ombre che strisciano per i Paesi del mondo che tanto si pensa civilizzato, non per via dell’orripilante riarmo generale da parte dei Paesi che per anni hanno motivato le loro agende politiche con la pace e con il progresso, ma anche perché il post-apocalittico si pone come medicinale efficacissimo al positivismo che sempre accompagna il capitalismo fin dalla sua nascita. È quindi un genere fondamentale in virtù del fatto che pone il lettore sempre in una nuova prospettiva a cui il contesto in cui egli vive non l’ha abituato veramente. Se tutta questa tecnologia, se tutta questa comodità non crescesse all’infinito? Se ci tradisse? Cosa succederebbe?

Esiste poi un secondo tipo di post-apocalittico, che non osserva la fine del mondo positivo del capitalismo, ma che traspone l’anima dell’umanità nel contemporaneo, e allora l’apocalisse si fa scusa per generare dei deserti, degli sfondi desolati e pericolosi in cui i personaggi si muovono e provano a sopravvivere, ma ancor prima cercano un motivo, un motivo valido per sopravvivere, per portare avanti l’umanità. Ecco allora che non c’è bisogno di un deserto fuori se il deserto è dentro, nella mente e nel cuore inaridito degli uomini, né tanto meno conta l’evento politico che ci ha portati a vivere in questo modo, e altrettanto meno conta che ci siano o meno altri uomini.

La città di cui parla Danijel Žeželj nel suo Come un cane, pubblicato da 24 Ore Cultura Comics, è una città viva e affollata, anzi proprio sulla folla e sulla sua reazione si muovono tutte le meccaniche di questo fumetto. Eppure tutto è permeato dalla solitudine di uno sguardo, lo sguardo del digiunatore, protagonista e macchina di questa non storia.

Raccontare la trama di Come un cane non è semplice. Si tratta di uno di quei fumetti che pone la sua forza nel lanciare una sensazione, attraverso una storia che non ci viene mai spiegata ma che riesce comunque ad essere immersiva. Il tutto parte da una visione kafkiana in cui la mutazione, il cambiamento, sembrano essere nettamente radicati all’interno del sociale. A muoversi e trasformarsi non sono solo i personaggi, ma anche le masse, coi loro comportamenti.

Il digiunatore (protagonista dell'omonimo romanzo di Kafka) vive sotto lo sguardo del pubblico. Le sue esibizioni sono amate e richiamano tutta la città, fino al momento in cui non lo fanno più: qualcosa di nuovo muove questa grande massa che sembra non avere sentimenti verso qualcosa di differente. Il tempo è deforme e il suo scorrere è sempre innaturale in queste tavole, spesso centellinato ad arte, proprio perché è tempo mentale (del resto, tutto il tempo è anche mentale) ma passa per una mente imperscrutabile, che scopriamo non essere la mente del personaggio che seguiamo per molte delle tavole che compongono questo lavoro, ma una specie di mente alveare, una mente collettiva in cui la città si è trasformata.

Per quanto riguarda il lato grafico Danijel Žeželj come sempre sfugge a ogni commento: parliamo infatti di uno degli artisti più singolari che il panorama ci possa offrire. Le sue sperimentazioni col nero sono una continua scuola per chiunque avesse mai avuto la sciagurata idea di avvicinarsi alla difficile arte della china, i suoi neri generano teatrini d’ombre ultra definite, che sono piatte e vive al medesimo tempo, alcune sue prospettive aberrate fino quasi a raggiungere l’horror vacui richiamano i quadri futuristi, staticità e movimento, un immobilismo pieno di inquietudine.

Una nota per il lettore: non aspettatevi di trovare un fumetto classico nella narrazione. La narrazione c’è, per inciso, ma è totalmente disgregata dagli ambienti e dalle sensazioni che queste possono dare, in una sorta di flusso di pensiero grafico. Žeželj ha infatti il merito di dimostrare fin dove il fumetto si può spingere mettendo alla prova le potenzialità della narrazione a fumetti.

Il mondo è finito, in queste pagine, il mondo si trascina, il mondo arranca, e il mondo sono le persone, che (più che essere) sembrano vive, che guardano un protagonista che non è protagonista, e non è realmente guardato. Il mondo si trascina perché le persone vedono ma non osservano. Tutto passa per un nichilismo che si pone fra l’annullamento del corpo, quello del digiunatore che si distacca a sua volta dal mondo per farsi osservare da questo, ma che, posto in quel contesto, si riduce a fenomeno da baraccone (e le sue azioni sono viste, ma per l’appunto non osservate).

Ecco che il tempo cambia trascinandosi, e la vittima di tutta questa storia è lo sguardo del lettore, che è costretto al sentimento di quella folla dagli occhi vacui.

Alessio Fasano

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