Quattro chiacchiere con MARCELLO TONINELLI



Artista tra i più importanti del panorama fumettistico italiano, Marcello Toninelli si è sempre contraddistinto per le sue simpatia e franchezza, per il suo gusto per l’ironia e la sua notevole cultura umanistica (caratteristiche che lo rendono una figura assolutamente singolare). Quella che segue è la lunga e cortese intervista che Marcello ha concesso agli Audaci per discutere a tutto tondo sulla sua più che quarantennale carriera, sulle sue opere, sui suoi colleghi e su tanto altro ancora…Non mi resta che augurarvi una buona e “audace” lettura! 

Come ricordi i tuoi esordi nel 1969 con le strisce umoristiche dedicate al poeta Dante Alighieri sulle pagine della romana “Offside”? Quanta voglia di dissacrare un certo modo di fare critica letteraria c’era in quei tuoi lavori giovanili?

Li ricordo soprattutto come... molto lontani. Certo, l'emozione che provai quando vidi il mio Dante in grande evidenza sulla copertina di “Offside” in un'edicola di via Tonale, a Milano, la ricordo ancora con grande chiarezza. Nel mio Dante, però, non c'era nessun intento critico... contro la critica. Era solo un modo di prendere un po' in giro la Divina Commedia e Dante che si prendeva invece molto sul serio. La critica poteva esserci, intrinsecamente e in modo un po' anarchico, contro le grandi strutture gerarchiche che, all'epoca, pesavano molto (e spesso in modo ottuso) sulle nostre vite di cittadini: Scuola, Esercito...

Abbiamo recentemente avuto la fortuna di poter ammirare le tavole di Adriano De Vincentiis esposte a Parigi presso la famosa galleria Maghen. Qual è il tuo giudizio su questo autore e che cosa ci puoi dire dei tuoi trascorsi con il genere erotico (l’esperienza al Gestudio di Gianni Bono con “Sexy Operette”)?

Ecco, se volevi farmi fare la figura dell'ignorante, ci sei riuscito: non so nemmeno chi sia, De Vincentiis! Vabbe', finita l'intervista andrò a scoprirlo su internet. Per i miei trascorsi “sexy”, ne ho un ricordo più che piacevole. All'epoca era un po' il primo passo obbligato per i principianti che si affacciavano al mondo professionale, e quella collana è stata la mia vera e propria scuola “elementare” del disegno. Copiando dai fotoromanzi e con l'aiuto di colleghi come Andreina Repetto, Domenico Marino e Salvatore Deidda conosciuti al GeStudio, ci ho imparato le anatomie, il drappeggio, la recitazione dei personaggi, la prospettiva, l'inchiostrazione, la sceneggiatura e quant'altro ignoravo visto che non provenivo da una scuola artistica ma da un istituto commerciale per ragionieri.

E della tua collaborazione con il settimanale “Adamo” di Luciano Secchi, edito dall'Editoriale Corno (“Sonny Sold” e “I Ragazzi di Stoner”), che cosa ti senti di raccontarci? Com’è stato lavorare con Max Bunker?

Secchi-Bunker credo di averlo incontrato solo una volta in ascensore... e fu la mia salvezza. Ero infatti andato a portare le mie prove. Lui, senza ricevermi, aveva visto il nome sulle tavole e mi aveva scambiato per Marco Torricelli, all'epoca collaboratore di Gualtiero Schiaffino con cui Secchi era al momento in urto, così aveva respinto la mia offerta di collaborazione. Casualmente poi prese l'ascensore insieme a me, e vedendomi si rese conto che ero un'altra persona. Qualche giorno dopo mi telefonò affidandomi prima delle storie autoconclusive e poi ben due serie, di una delle quali ero autore completo. Un sogno! Per il resto, avevo a che fare solo con la segretaria di redazione, Thea Valenti. E con l'amministrazione della Corno, dalla quale era sempre un'impresa farsi pagare rapidamente!

Perché hai sentito la necessità di effettuare una trasposizione a fumetti – sempre ironica e irriverente – dei grandi classici della letteratura, tra cui “La Divina Commedia”, “Iliade”, “Odissea” ed “Eneide” (prima su “Il Giornalino”, poi in fascicoli pubblicati da Ned 50, la casa editrice da te diretta che pubblicava “Fumo di China”, e infine raccolti in volume da Cartoon Club)?

Di come è nato “Dante” ho già detto sopra. Gli altri sono stati la felice conseguenza del successo della mia Divina Commedia proprio su “Il Giornalino”. L'accoglienza inusitatamente calorosa riservatagli dai lettori e dimostrata con lettere e telefonate spinse il mitico Don Tommaso Mastrandrea a chiedermi di fare anche Omero, e poi Virgilio e il Tasso. Finché il cambio di direttore non mise termine a questa bella sequenza di parodie. D'altronde, non restavano più molti poemi famosi, da prendere in giro!

 





















Sei da sempre considerato il maestro delle rivisitazioni umoristiche. Quanto ritieni che la tua lezione abbi influenzato il nuovo campione di questo genere, Leo Ortolani?

Zero, direi! Leo è un genio assoluto e ha un suo modo personalissimo di fare parodie, non a strisce e sempre attraverso il suo personaggio. Non credo proprio che abbia “imparato” qualcosa da me, né di essergli stato d'ispirazione.

Come puoi descrivere ai tuoi lettori del 2012 che cosa ha significato per te e per il mondo del fumetto l’avventura di Edizioni 50 (con “Fox Trot”, “Prova d'Autore”, “Marshall Mickey” e “Fritto Misto”) prima e di Ned 50 poi (con “Fumo di China”)?

Non è facile spiegarlo a chi è nato e vive nel mondo digitale che ormai ha pesantemente “inquinato” anche il mondo editoriale, e sempre più lo farà negli anni a venire. All'epoca, anche se ero già un professionista riconosciuto, soprattutto sul versante delle sceneggiature che scrivevo per Bonelli, avevo voglia di fare anche altre cose, più personali, e trovai una felice corrispondenza di “brama di esprimersi” in due amici e colleghi più giovani di me, Paolo Di Pietrantonio e Stefano Casini, ai quali si aggiunsero poi altri coraggiosi (o incoscienti?) come Renzo Sciutto, Luca Boschi, Marco Bianchini, Francesco Conchetto ecc. All'epoca, appunto, il computer praticamente non esisteva, così per soddisfare le nostre ambizioni ci improvvisammo editori di noi stessi con le riviste che hai citato. Fu un'esperienza esaltante e formativa... imparammo sulle nostre tasche tutti gli inghippi di quel difficile mestiere, arrivando però alla fine (grazie anche a Sergio Bonelli che ci “presentò” alla Marco: il distributore era lo scoglio più difficile, per un piccolo editore come noi) a portare in edicola una rivista come Fumo di China e poi a inventarci l'Annuario del Fumetto, tenendo i conti in pareggio per dieci anni... e non è davvero poco, per una struttura come la nostra senza capitali alle spalle, se non quello umano. All'inizio ci abbiamo rimesso dei bei soldini, ma quasi tutti quelli che hanno partecipato a quell'esperienza ne hanno poi avuto dei benefici professionali diretti e indiretti. Oggi, come dimostra l'esperimento di Paola Barbato e soci, “Davvero”, la rete consente di sperimentare e farsi vedere senza dover affrontare il costo della carta stampata e le forche caudine delle edicole. Non so se sia meglio o peggio, ma certo le cose non sono più le stesse.

Quanto è importante per te la critica fumettistico–letteraria? Sappiamo che hai permesso la pubblicazione di molte fanzine e riviste, tra cui la più famosa è senza dubbia la mitica “Fumo di China” che hai diretto fino al n.56 del marzo 1998.

Fumo di China” è l'unica in cui ho messo le mani direttamente o meno. E, ovviamente, ritengo che l'esistenza della critica nel nostro settore sia importante come in tutti gli altri settori artistici. Con FdC credo che abbiamo contribuito un bel po' a “sdoganare” il nostro amato linguaggio, fin lì abbastanza bistrattato da tutta la cultura ufficiale.

Pensi sia ancora lunga la strada da percorrere perché cadano completamente anche nel nostro Paese le barriere mentali e i preconcetti relativi al fumetto come letteratura di serie B? Quali iniziative pensi possano essere d’aiuto in questo senso?

Potrebbe anche essere infinita! Il problema, in Italia, è che il fumetto è tuttora principalmente considerato letteratura di serie B perché, a differenza della Francia per esempio, ha tardato moltissimo a sbarcare in libreria e perciò a proporre delle storie che uscissero dal ghetto dell'avventura da edicola con l'eroe fisso che è stata la costante fino ad oggi. A scuotere quel mondo monolitico hanno contribuito negli anni 70 e 80 autori come Pratt, Battaglia, Toppi, Giardino e Pazienza grazie anche al fenomeno delle cosiddette “riviste d'autore”, purtroppo presto tramontate senza avviare in modo significativo la nascita di un fumetto da libreria. Oggi sembra indirizzata in questo senso la nuova “moda” dei graphic novel. Speriamo in bene...

Nel 2009, in occasione del quarantesimo anniversario del tuo esordio, hai pubblicato sotto il marchio Cartoon Club Editore due nuovi volumi dedicati all’Alighieri: “Dante – La Vita” (biografia dantesca umoristica a strisce) e “S’i’ Fosse Morte...” (romanzo giallo). Come descriveresti queste due opere a chi non le ha ancora lette?

Beh, la “Vita” di Dante era nata in forma di fascicolo già dieci anni prima per festeggiare il trentennale del personaggio. Avendo nel frattempo letto altre biografie di Dante per documentarmi proprio per il romanzo che citi, mi sono reso conto che c'erano cose da aggiungere e altre da correggere, così ci ho rimesso mano e ne ho tirato fuori un volume che è la biografia a strisce umoristiche del poeta. Non è la prima con cui mi sono cimentato. Sempre a strisce umoristiche, c'erano già state una “biografia condensata” di Mussolini uscita in allegato a “Storia Illustrata”, la biografia di Virgilio in appendice ai due volumi dell'Eneide e quella del Cavaliere, “Berlustory”, uscita prima in tre fascicoli allegati a “Fumo di China” e poi raccolta in volume, già arrivato alla seconda edizione. Il romanzo, invece, è una voglia senile che coltivo da una decina d'anni. “S'i' fosse morte...” è un giallo ambientato nella mia Siena del 1286 che vede protagonisti il poeta umoristico mio conterraneo Cecco Angiolieri e, inevitabilmente, Dante Alighieri. È un giallo “serio”, e alcuni lettori con cui ha avuto modo di parlare ne sono rimasti molto soddisfatti, sia per la trama che per lo stile “evocativo”.

Veniamo a “Zagor”. Come sei arrivato a lavorare in Bonelli?

Mi fece da tramite Gianni Bono, la cui agenzia già collaborava con la casa editrice di Bonelli. Mi disse che cercavano uno sceneggiatore, presentai due o tre soggetti... e qualche giorno dopo ero già al lavoro sul primo!

Che ne pensi della grande ristampa a colori che ha come protagonista lo Spirito con la Scure (in allegato a “La Repubblica–l’Espresso”)? Riusciremo, secondo te, a rivedere in edicola le avventure che scrivesti tanti anni fa, o le pubblicazioni si fermeranno prima?

Prego tutte le sere perché sia così, e i diritti d'autore zagoriani tornino a far fiorire il mio conto corrente. Scherzi a parte, non posso che esserne felice visto l'affetto che ho per il personaggio, anche se ho smesso di leggerlo da vent'anni. L'editore per ora ha messo in cantiere solo trenta volumi (pari a 70/80 albi bonelliani), ma la potenza di fuoco pubblicitaria del gruppo Repubblica-Espresso fa ben sperare che si riesca a riattrarre i lettori che si erano allontanati dal personaggio e si possa andare avanti a oltranza come è successo per Tex.

Il tuo esordio zagoriano, "Il Filtro Diabolico" (n. 203), risale al luglio 1982 e divideva l’albo con una storia scritta da Sclavi. Il tuo ultimo lavoro nella serie regolare è stato “La Notte del Massacro” (n. 334) del maggio 1993 e dopo la tua iniziava la prima storia scritta da Mauro Boselli per “Zagor”. Hai mai pensato di essere stato un maestro, un modello per questi due grossi nomi del panorama fumettistico italiano?

Ma per carità! Io non ho mai avuto niente da insegnare né a Sclavi né al bravissimo Boselli! Io ho il mio modo di scrivere, e loro il proprio. Anche perché credo che sia più facile l'imprinting nel disegno che nella scrittura, sempre frutto di un percorso personalissimo.

Tue sono anche le storie dei primi tre albi “Zagor Speciale”: “Zagor alla riscossa!” (n. 1, giugno 1988), “La Pietra che uccide” (n.2, giugno 1989), “La Città sopra il Mondo” (n. 3, giugno 1990). Che cosa ci puoi dire del disegnatore, il grande Gallieno Ferri?

Tocchi un tasto dolente! Dunque, perché sia molto chiaro quello che vado a dire, quando ero solo un lettore di Zagor stravedevo per Ferri. Gli albi disegnati da Donatelli o Bignotti li consideravo “di serie B”. Quando ho incominciato a scriverlo, però, devo dire che sono rimasto spesso deluso dal lavoro di Ferri, sempre abbastanza frettoloso, e dalla sua incapacità di far “recitare” i personaggi come all'epoca era invece già bravissimo a fare, per esempio, Milazzo. Donatelli, al contrario, anche se il suo disegno era molto più sintetico, scarno e direi addirittura “povero” (oltre che meno ruffiano) di quello di Ferri, “accompagnava” la sceneggiatura in modo esemplare, e quando l'ho “spinto” a superarsi con la storia del viaggio da costa a costa di “Beau” Whyndam, ha dato veramente il meglio di sé. Una mia critica al disegno di Ferri sul volume di “Collezionare” (la fanzine di Burattini!) dedicato a Zagor, mi costò (?) l'ostracismo di Ferri che disse di non voler mai più disegnare una mia storia! Per fortuna, quando l'ho incontrato di nuovo a qualche mostra o, due anni fa, nel viaggio in Turchia, mi ha sempre abbracciato e abbiamo parlato piacevolmente da buoni colleghi. Perché, come me, riconosce i volti ma non si ricorda i nomi. E nemmeno i “peccati”, dunque! Un merito che gli ho sempre riconosciuto, invece, è l'estrema bravura come copertinista. Le sue cover sono sempre efficacissime, perfette.



Tu hai avuto anche l’onore e l’onere di scrivere la storia per il n. 300. Ci racconti la genesi de “La Corsa delle Sette Frecce” del luglio 1990?

Ahimè, non sono assolutamente in grado di farlo! Sono passati più di vent'anni, e non si è trattato di una storia per me particolarmente significativa. Ricordo solo che, a differenza del solito, dovevo stare nelle 94 pagine dell'albo, e dunque costruire una storia “limitata”. L'ho fatto con l'abituale divertimento e professionalità, e spero di aver accontentato una volta di più la maggioranza dei lettori.

In totale sono usciti a tuo nome ben 92 albi di “Zagor” (89 della serie regolare e i primi 3 Speciali). Con quali occhi consideri oggi queste cifre? Ti senti di aver contribuito in modo notevole alla vita editoriale dello Spirito con la Scure o per te si è trattato di un lavoro come un altro?

Si è trattato senza dubbio di un'esperienza “totalizzante” e importantissima, per me. Amavo il personaggio da lettore, e scriverne le storie è stato davvero un sogno. Quelle di avventura pura sono le storie che scrivo, tuttora, più volentieri, e dunque per dieci anni sono stato un fumettista felice, oltre che ben pagato. Sicuramente ho dato un contributo importante alla collana. Dieci anni da “titolare” non sono uno scherzo, e Canzio mi disse che durante quel periodo, a differenza delle altre testate storiche, Zagor non aveva mai perso copie ma, anzi, per un certo periodo ne aveva guadagnate. Fra i lettori ci saranno stati sicuramente gli insoddisfatti, e posso capirli (io stesso, quando Bonelli aveva smesso di scriverlo, avevo smesso di comprarlo perché le storie di Castelli, Sclavi e Canzio non mi sembravano abbastanza “zagoriane”), ma continuo a incontrarne, alle fiere e su internet, che si sono entusiasmati coi miei racconti e ci sono “cresciuti” come io avevo fatto con quelli di Nolitta. E dunque posso essere tutto sommato soddisfatto del mio lavoro e ricordare quegli anni come un periodo molto bello.

Marcello Toninelli
Ci spieghi le motivazioni alla base della fine del tuo rapporto con “Zagor”? Volevi rinnovare qualcosa e non tutti erano d’accordo?

È solo questione di caratteri. Io non sono mai stato un “impiegato” del fumetto, così dopo dieci anni di umile servizio al personaggio, sentivo il bisogno di farlo un po' più “mio”, ma questo andava contro la filosofia di Sergio... e il personaggio era suo in tutti i sensi possibili! Per di più si erano cominciati a creare dei “fastidi” nei confronti di alcune persone della redazione, così feci una proposta di affiancare uno Zagor nuovo a quello classico, con una precisa continuity e nuovi disegnatori. Ben sapendo che era una lettera di dimissioni. E visto che nel frattempo Gino D'Antonio mi aveva chiamato a “Il Giornalino” dove potevo scrivermi e disegnarmi i miei personaggi, alzai i tacchi senza troppi rimpianti.

Che ne pensi del modo in cui, prima Boselli e poi Burattini, hanno portato avanti la serie regolare dopo di te?

Niente, perché ho smesso di leggerlo quando ho smesso di scriverlo. Suppongo che stiano facendo il miglior lavoro possibile nella difficile contingenza che vive il fumetto (come la carta stampata in generale), ma non ho elementi per giudicarlo.

Che ricordo hai di Sergio Bonelli editore? E di Sergio, l'uomo?

Come editore, è stato uno dei miti della mia adolescenza. Come persona, non l'ho frequentato molto. Era sicuramente una persona onesta, timida e caparbia insieme, gentile, disponibile... solo che da un certo momento in poi le nostre strade si sono allontanate. Quando lo incontravo alle mostre ci salutavamo sempre cordialmente, ma in realtà non avevamo molto da dirci. Sono stato felice di vederlo a Riminicomix la scorsa estate, commosso fino alle lacrime per l'affetto tributatogli dai suoi lettori nei due incontri organizzati dallo staff. È stato un bell'addio al suo pubblico, a pochissimi mesi dalla sua imprevedibile morte. E sono felice di essere stato lì per vederlo perché, comunque, pur nella divergenza di vedute, gli ero affezionato come a un secondo padre.

Ti va di descriverci il tuo rapporto con Decio Canzio?

Decio è un gran personaggio. Sornione, diplomatico e ironico come persona, solido ed efficace come sceneggiatore. Con lui ho lavorato sempre bene. Se avevo delle rimostranze o delle lamentele, dopo avermi dato del “toscanaccio” riusciva sempre a riportarmi all'ordine senza bisogno di alzare la voce o battere il pugno sulla scrivania. Era comunque capace di ascoltare e anche di concedere, quando era il caso. Ne ho un bel ricordo. So che ora non sta tanto bene, e mi dispiace.

Veniamo a “Dylan Dog”. Sei stato uno dei primissimi (con Giuseppe Ferrandino, Luigi Mignacco e Alfredo Castelli) ad affiancare Tiziano Sclavi nella sceneggiatura degli albi del primo periodo dell’Indagatore dell’Incubo. Quali sensazioni ricordi di quegli anni? Eravate consapevoli di lavorare a qualcosa che sarebbe diventato un fenomeno (sotto tutti i punti di vista) irripetibile?

Tiziano, essendo stato il mio contraltare redazional-zagoriano per anni, insieme a Canzio, conosceva benissimo la mia scrittura e quando varò il suo personaggio mi chiamò subito a dargli una mano. Per lui avevo anche già scritto qualche episodio di “Kerry il trapper”, il suo personaggio western-horror che appariva in appendice a “Il comandante Mark”. E no, non c'era nessun entusiasmo intorno a Dylan Dog, all'inizio. Era uno dei ricorrenti periodi di “crisi del fumetto” e Bonelli aveva accettato quel personaggio, credo, più per premiare il buon lavoro redazionale di Sclavi che per effettiva convinzione. Dopo qualche numero chiesi a Tiziano come andavano le cose, e se la pubblicità che facevano mensilmente su “Repubblica” (un piccolo riquadro in bianco e nero) aiutava le vendite. Mi disse che i cinque milioni che spendevano per quegli avvisi si mangiavano esattamente il poco utile della testata. Dunque, l'atmosfera era quella dell'“accontentiamoci che si va in pari”!

Entrambe le tue storie (“Giorno Maledetto” n. 21 del giugno 1988 e “Riflessi di Morte” n. 44 del maggio 1990) sono state disegnate dal duo Montanari – Grassani. Che rapporto avevi (o hai ancora) con i due?

Alla Bonelli non ho mai avuto alcun rapporto con i disegnatori, se già non li conoscevo per altri motivi. Ritengo Grassani un buon matitista e Montanari un inchiostratore piuttosto rigido e banale. Oltre che un pessimo disegnatore, come può riscontrare chiunque abbia visto i suoi episodi “a solo” di Zia Agatha su “Il Giornalino”. A questo proposito però ho da raccontare un episodio che mi è tornato alla mente solo qualche tempo fa. Quando consegnai a Tiziano la sceneggiatura della seconda storia, in modo del tutto inabituale mi chiese: “C'è qualche disegnatore da cui NON vorresti che fosse disegnata la tua storia?” Io gli risposi che non apprezzavo molto Montanari, e visto che aveva già disegnato la prima, mi sarebbe piaciuto che questa fosse affidata a qualcun altro. Per il resto non avevo preferenze di sorta, stimando tutti gli altri autori. Quando uscì l'albo e vidi che era disegnato dall'ineffabile duo, ricordando la domanda di Sclavi pensai tra me e me: “Ma allora è scemo!”, e poi non ci pensai più. Solo recentemente mi è tornato in mente, appunto, quell'episodio, e mi sono domandato: “In che modo posso averlo offeso, per spingerlo a farmi un simile dispetto da Asilo Mariuccia?” E, sinceramente, non sono riuscito a capirlo. L'unica ipotesi è che questo sia successo dopo che mi aveva chiesto di fare anche i disegni per Dylan. Io gli avevo portato delle prove. Il viso di Dylan non andava molto bene, ma erano state accettate anche da Canzio che mi consigliò soltanto di “copiare” tranquillamente le facce da Stano o altri. Io, a quel punto, però, non ero più molto convinto della cosa, e rifiutai l'offerta. Che sia stato quello a offenderlo? Temo che non lo saprò mai.
Il Dylan Dog di Toninelli

Cosa ricordi della collaborazione con Tiziano Sclavi? È stato bello lavorare con lui?

Beh, sì, abbastanza. Era il più giovane della banda, eravamo in sintonia su varie cose... quando portavo i soggetti chiacchieravamo anche del più e del meno... ma io sono comunque sempre stato un po' intimorito “dalla Bonelli” di quell'epoca. Sapevo di essere solo uno dei tanti sceneggiatori, e ho avuto rapporti amichevoli con tutti, ma mai d'amicizia. Era solo un rapporto professionale.

A quale delle due storie che hai scritto per “Dylan Dog” sei più legato?

Legato”, a nessuna delle due. Non ho avuto il tempo di affezionarmi al personaggio. Certo, la seconda la sento più “mia”, semplicemente perché lo è fin dal soggetto, mentre nella prima il soggetto era di Sclavi.

Oltre che per “Dylan Dog”, hai lavorato anche per un altro investigatore del soprannaturale, il mitico “Gordon Link” ideato da Gianfranco Manfredi e Raffaele Della Monica (edito da Dardo nei primi anni Novanta): ricordi e sensazioni di quell’esperienza. “Il Faro”, “Johnnie che cammina”, “Il Morbo Viola”, “La Montagna Sacra”: a quale storia sei più legato e perché? Ti sei trovato bene a lavorare con Gianfranco Manfredi?

Anche in questo caso, l'atmosfera in redazione era molto cordiale, ma comunque i rapporti erano solo professionali. Non saprei cosa dire di Manfredi... lo conoscevo come musicista e attore-sceneggiatore cinematografico, ma nei fumetti era un “apprendista”, mentre io avevo già alle spalle venti anni in cui avevo fatto di tutto, dal matitista all'editore, dallo sceneggiatore al redattore. Fra l'altro, forse per insicurezza nel nuovo ruolo, “scopiazzava” allegramente le idee da ogni genere di libri, classici o meno. Era lui a passarmi i soggetti, perciò io dovevo fare solo il lavoro di “mero professionista” della scrittura, ed ero costretto a cercare un po' di divertimento nei dialoghi e nella cura dei passaggi narrativi. Quando alla fine mi chiese di fare anche il soggetto, prima me l'accettò, ma al momento della consegna della sceneggiatura venne fuori con delle contestazioni sul soggetto! Avevo già riscosso il compenso dall'editore, così lo mandai a quel paese e interruppi la collaborazione. E fu la mia fortuna, visto col senno di poi: le vendite della testata non andavano bene, e l'idea di Manfredi di allegare all'albo una musicassetta dette il colpo di grazia alle finanze del povero e incauto Casarotti. Così molti disegnatori non vennero pagati, e alla fine il giornalino chiuse. Io me ne ero andato appena in tempo! Con Raffaele, che è sempre stato un ragazzo simpaticissimo, eravamo invece già più amici. Ci vedevamo anche fuori dal lavoro...

E della tua breve incursione come sceneggiatore di “Nick Raider” (personaggio poliziesco Bonelli ideato dal grande Nizzi) – il cui frutto è l’albo “Omicidi alla Finestra”, n. 42 del novembre 1991 – che ricordo hai? Ti piace il genere giallo?

Un altro divertimento, tanto per non annoiarmi a fare sempre solo Zagor! Ho scritto anche una seconda storia, però quando ero ormai con un piede fuori dalla Bonelli, così la scrissi (per dispetto) “alla Miller” rompendo l'asfissiante gabbia delle sei vignette bonelliane. Mi fu correttamente pagata, ma non fu mai utilizzata. Quanto ai gialli, insieme alla fantascienza sono stati la mie letture preferite fin dall'adolescenza. Andavo matto per Nero Wolfe, per Sherlock Holmes, e poi per Westlake, spassosissimo. Attualmente divoro con particolare piacere i gialli svedesi e norvegesi.

Hai anche collaborato a “Il Giornalino” con altre due serie molto particolari: “Prof. Van Der Groot” e “Agenzia Scacciamostri”. Ce ne parli?

In realtà si tratta di un'unica serie, “Agenzia Scacciamostri”, il cui protagonista è il prof. Van Der Groot che condivide l'onore della testata. Come ho già detto, fu il grandissimo Gino D'Antonio a chiamarmi a “Il Giornalino” dopo aver visto alcune mie storie da autore completo su “Fox Trot”. Prima mi chiese di fare dei “finalini”, come in redazione chiamano le storielle autoconclusive. Preso coraggio, dopo un po' presentai il mio progetto di serie che venne immediatamente accettato. Che bellezza! Scrivermi e disegnarmi le storie, fare il lettering e dare anche le indicazioni di colore... quello sì che era lavorare! E lì dentro, essendo una struttura abituata a trattare con giornalisti e illustratori, anche noi fumettisti venivamo (e veniamo tuttora) trattati da professionisti, una sensazione piacevolissima che non avevo mai provato alla “artigianale” Bonelli, 
dove ti sentivi piuttosto un “prestatore d'opera”.

E della tua eroina al femminile “Shanna Shokk”, che hai ideato per la Star Comics, che cosa ci vuoi dire?

Un'impresa sfortunata! Cavallerin mi telefonò chiedendomi di collaborare con loro. Lui aveva in testa un altro bonelliano da affiancare a “Lazarus Ledd”. Io gli feci la controproposta di albetti tascabili che all'epoca sembravano poter tornare di moda. La Granata Press di Bernardi e Ghiddi aveva appena messo in edicola “La bionda” di Saudelli, così misi insieme un gruppo di lavoro e portai alla Star tre testate “chiavi in mano”, la mia “Shanna Shokk”, appunto, la “Sprayliz” di Enoch rimasta orfana de “L'Intrepido”, e “Ossian” di Barbieri e Mandanici. Nessuno dei tre resse alla prova dell'edicola. Le altre due testate vennero comunque prodotte fino al numero concordato nel contratto, io accettai di interrompere anticipatamente la serie al n.4 perché avevo già abbastanza impegni con “Il Giornalino” e “Fumo di China” e non volevo perdere altro tempo con una serie dimostratasi purtroppo fallimentare.

C’è qualcosa del tuo passato che vorresti venisse riscoperto o tenuto in maggiore considerazione oggigiorno? E invece c’è qualche serie o personaggio che hai ideato e/o disegnato in passato che oggi non ti dà più soddisfazione?

Riscoperto? Mah, no, direi che i lettori si sono sempre dimostrati molto saggi e hanno condannato quello che era da condannare e sostenuto quello che era da sostenere. Io ogni tanto continuo a fare esperimenti, appena ne ho l'occasione, ma sono sempre pronto ad accettare il responso del pubblico senza rimpianti. Può darsi che alcune serie o personaggi miei non abbiano avuto fortuna per motivi contingenti più che per scarso valore, e in tal caso, se mai se ne presentasse l'occasione, sarebbe divertente dargli un'altra chance. Sono comunque affezionato a tutto quello che ho fatto perché, nel bene e nel male, e nel contesto delle varie situazioni, ho sempre fatto tutto con divertimento e passione.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Sul fronte dei fumetti, per cominciare ci sono le strisce di “Capitan G” che realizzo per “Il Giornalino”. L'anno scorso ho un po' ridotto la produzione a causa di un problematico trasloco, ma quest'anno (e i prossimi) conto di riprendere il ritmo iniziale. Su “Fumo di China”, dal n.200, è appena partita la mia versione a strisce umoristiche de “I promessi sposi” che andrà avanti per qualche annetto. Sto poi lavorando a qualche progetto per il mercato francofono, e se son rose fioriranno. Infine vorrei dedicarmi sempre di più alla scrittura. Ho terminato da qualche mese il mio secondo romanzo, di fantascienza, e sto già lavorando al soggetto di un altro, un thriller ambientato in Italia. Per il resto... si vedrà!

Un sentito grazie per le tue disponibilità e cortesia. Auguri di buon lavoro.

Grazie.

Per restare sempre aggiornati sulle iniziative di Marcello, vi consigliamo di visitare il suo blog
Un sentito ringraziamento al Sommo Audace - Giuseppe Lamola - per le tante domande suggerite e per la revisione finale dell'intervista.
ROLANDOVELOCI




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